A San Pellegrino l’artista dei dolci “autoctoni”

Franscesco Zurolo con la novità Arlecchino lightÈ solo questione di tempo: state certi che prima o poi arriva una nuova idea golosa. Per Francesco Zurolo l’arte della pasticceria è strettamente legata alla prossima invenzione dolce o salata. Così, ad esempio, è nato il panettone a base di mele rigorosamente brembane, quello a base di castagne e noci o la colomba al melone retato di Calvenzano, che ora esporta anche all’estero: da Madrid alla Svizzera, fino alla Russia. Intuizioni che, sposando il prodotto bergamasco, diventano ricette ambasciatrici del territorio.

San Pellegrino è la culla di questo chef 39enne che attinge dalle sue origini campane (è sorrentino di nascita), ma poi sviluppa il suo iter del gusto nella nostra provincia, realizzando un mix di pasticceria nord-sud che non si arrende mai all’abitudine, senza trascurare la tradizione della sua terra d’origine: Francesco crea infatti quotidianamente dalla pastiera ai babà, dagli strufoli alle cassate, al limoncello.

Giambattista Gherardi, giornalista bergamasco tra gli ambasciatori del mais spinato, ha definito Zurolo “il talent scout della tipicità”. Effettivamente, in questi anni l’uomo non si è mai risparmiato ospitando nel suo laboratorio dal melone alle castagne, alle mele, “cucendo” loro addosso la ricetta giusta, capace di valorizzare un prodotto magari fino a quel momento trascurato. Ma l’aspetto più interessante è che Zurolo, con la sua passione, è riuscito a contagiare decine di giovani aspiranti pasticceri della Val Brembana. «Da anni sono docente all’Alberghiero di San Pellegrino – spiega -. Insegno cucina, ma soprattutto pasticceria e devo dire che i ragazzi mi seguono moltissimo. Rispetto a qualche anno fa sono più curiosi, hanno il gusto del particolare, si applicano con grande attenzione. Peccato che la tv deformi la professione di chef e pasticciere, creando un’immagine fasulla, tutta lustrini e paillettes, che li vorrebbe tutti star del piccolo-grande schermo, mentre chi fa questo mestiere conosce gli enormi sacrifici, gli anni trascorsi senza poter far ferie a Natale o Capodanno, lavorando giorno e notte, senza poter mai guardare l’orologio». Emblematica a questo proposito è la giornata tipo di Francesco durante le recenti festività natalizie: «Mi alzo attorno alle 3 del mattino per creare dolci e infornare – racconta – e non mi fermo più fino alle 9 di sera, perché poi ho i miei affezionati clienti del negozio (si chiama Gusto Dolce & Salato, ndr.), senza contare i pacchi regalo da confezionare e il servizio catering, che mi porta a proporre le mie specialità anche a molti chilometri da San Pellegrino».

Francesco Zurolo - pasticciere San PellegrinoSi diceva dei giovani: molti, i più promettenti, attraverso stage con l’istituto alberghiero, finiscono per un periodo direttamente nella bottega del loro docente: «Hanno grande entusiasmo – evidenzia – e non vedono l’ora di cimentarsi in nuove ricette. La pratica in negozio mette anche i ragazzi a contatto con la clientela, dosandone gli umori, i rilievi, i suggerimenti: è una grande palestra di vita, che, oltre ai miei suggerimenti, serve a loro per migliorare il lato tecnico e umano». Poi naturalmente Zurolo consiglia a tutti di «viaggiare, per arricchire il proprio bagaglio di esperienze, proprio come ho fatto io prima di mettere le tende in Val Brembana. Sono stato da grandi maestri dal Giappone alla Germania, ho imparato l’arte del cioccolato a Vienna, nella terra della Sacher: per fare questo mestiere ci vuole una grande dose di umiltà e tanta curiosità, che ti permette di rubare tanti segreti, per poi cominciare a sperimentare anche in maniera autonoma». Da allora Zurolo ha iniziato a creare i suoi panettoni con prodotti autoctoni, che hanno subito raccolto consensi in valle, come l’ultima “creatura” dello scorso Natale, l’Arlecchino Light, composto da lievito madre, mele della Val Brembana e una miscela di farine di cereali. «L’ho chiamato Arlecchino in onore della maschera originaria proprio di questa terra e light – spiega -, perché ho usato zucchero integrale e miele. Le mele vengono candite nel loro sciroppo, con glassatura croccante e cottura nel legno». Ma il pasticcere campano-bergamasco guarda già alle prossime sfide: nel mirino ci sono dei biscotti con base zafferano. «Sto prendendo contatti con la Comunità montana, perché so che è nata una produzione in Valle molto incoraggiante», dice, e poi rivela un altro sogno che sta per avverarsi: «Grazie alla collaborazione con Aspan, l’azienda di Olmo al Brembo Mondo Asino e alla società Emozioni Orobie, sto mettendo a punto un’altra novità che credo risulterà interessante: i biscotti a base di latte d’asina, che risultano molto più leggeri e digeribili anche per chi ha intolleranze. È una sfida ambiziosa, visto anche l’alto costo delle materie prime, ma sono certo che alla fine, come è sempre accaduto, i consumatori apprezzeranno i miei sforzi».


Ai Burattini, la tradizione nelle mani dei giovani

Bisogna andare a cercarlo, ma ne vale la pena. Il ristorante enoteca Ai Burattini di Adrara San Martino non è collocato infatti né in un grosso centro né su una via di grande traffico ma nel tempo è riuscito a ritagliarsi spazio e visibilità nel panorama della ristorazione bergamasca. Tanto da essere inserito quest’anno nella guida Osterie d’Italia di Slow Food Editore, “sussidiario del mangiarbere all’italiana” a prezzi che per antipasto, primo, secondo e coperto non devono superare 35 euro.

Un riconoscimento che arriva gradito, anche se la storia del locale è molto lunga e va avanti da quattro generazioni. Sono stati i bisnonni – Giacomo Plebani con la moglie Maria – dell’attuale patron Gianmarco Bellini, 36 anni, a dare inizio all’attività. La coppia ha avuto quindici figli ed è stato il nonno di Gianmarco, Nino Plebani con la moglie Agnese Tiraboschi, che ha portato avanti l’attività. Poi il locale è passato di mano per un breve periodo, nel 2001 è stato ristrutturato e dal 2009 è gestito da Gianmarco che si avvale anche della collaborazione in sala della moglie Annamaria Zambelli.

«Siamo cresciuti qua – racconta Gianmarco Bellini, che per inciso è fratello di Gianpaolo, calciatore e bandiera dell’Atalanta –, asciugando sin da piccoli i piatti in cucina, si dava una mano tutti. C’è tanta passione in questi anni di storia e penso che il riconoscimento ottenuto da Slow Food vada in parte anche a quanti ci hanno preceduto. Non abbiamo vanificato i loro sacrifici. Certo, nella povertà si cucinava alla buona, ora bisogna seguire altri canali».

“La tradizione e la qualità” è lo slogan di Ai Burattini (nome non casuale in quanto nel cortile in passato si tenevano, appunto, gli spettacoli di burattini) che Gianmarco interpreta così: «Ricerchiamo i prodotti Slow Food, abbiamo quindi la scottona piemontese, lo Stracchino all’antica delle Valli Orobiche, l’Agrì di Valtorta, il mais di Rovetta rostrato rosso, tanto per fare degli esempi, e adesso aspettiamo la sardina essiccata del lago d’Iseo».

In cucina ci sono due baldi giovanotti: Luca Costa di 20 anni e Michael Capoferri che ha qualche anno in più ed è nel locale da sei anni, quindi da quando è passato in gestione a Gianmarco. Così come il menù ha la sua particolarità, essendo scritto sulla lavagna, anche la carta dei vini (con buona rappresentanza di bergamaschi, franciacorta e piemontesi) è originale: le bottiglie sono collocate in vista sui ripiani di uno scaffale con tanto di cartellino del prezzo: si passa e si sceglie. Il locale è intimo con due salette da 20 – 25 posti ciascuna per una capienza quindi di 45 coperti. Per la bella stagione c’è un dehors delle stesse dimensioni ma i due ambiti vengono usati in alternativa.

Per un menù da 35 euro, come richiede la guida, cosa consiglierebbe, dunque il padrone di casa? «Premesso che tutta la pasta è fatta in casa, anche i grissini e i dolci – sottolinea Bellini –, suggerirei un antipasto tipico, poi i casoncelli alla bergamasca o il risotto con i funghi quindi tra i secondi il filetto allo Strachitunt, il coniglio con la polenta, lo stracotto di asino o cinghiale oppure il baccalà in umido o in insalata».


«Tanta umiltà. Così si può capire il mondo del vino»

A sentirlo parlare sembrerebbe quasi che Fabrizio Sartorato, chef sommelier del tristellato Da Vittorio, a Brusaporto, abbia vissuto più di una vita. Non sono molti, infatti, i professionisti della sommellerie che possono vantare la sua esperienza e una tale miriade di aneddoti, alcuni dei quali incredibili, che potrebbero riempire più di un’esistenza, come il Gin tonic della Regina Elisabetta o quel favoloso Cognac del 1802, aperto nottetempo per dei clienti speciali. C’è chi, per molto meno, si sarebbe già montato la testa, ma non lui che, piedi ben piantati a terra, continua a lavorare sentendosi un vero “sommelier al servizio del vino”.

È una definizione che campeggia anche sul suo biglietto da visita. Cosa significa essere un “sommelier al servizio del vino”?

“Il vino è un alimento vivo per il quale ho grande rispetto, per questo mi metto al suo servizio. Per rendergli giusto merito, infatti, occorre scegliere il momento di massima espressione in cui aprirlo, la giusta temperatura di servizio e utilizzare tutta la ritualità del caso. Ogni vino è come un’opera unica, che merita attenzione e rispetto”.

Come riesce a intuire quando un vino è pronto, prima che intraprenda la sua fase discendente?

“L’esperienza maturata in vent’anni di lavoro è stata determinante per affinare questa sensibilità. E’ chiaro che, pragmaticamente, è necessario tenere monitorata la cantina in modo che le bottiglie di pregio non rischino di andare sprecate. E’ perfettamente inutile ed economicamente folle, infatti, avere una “cantina-museo” con centinaia di bottiglie storiche, che hanno sorpassato la curva del loro massimo. Il vino, non a caso, è un alimento vivo che come l’uomo invecchia. Quando questo accade, senza che sia stato aperto, l’errore è del sommelier che non ha saputo anticipare e capire i tempi di evoluzione di quella bottiglia”.

Come nasce la sua passione per il vino?

“Grazie a una bellissima esperienza fatta in Austria, presso il ristorante Altwienerhof di Vienna. Allora ero Chef de Rang e per gioco il sommelier del ristorante iniziò a farmi assaggiare dei vini. Ricordo che il mio primo bicchiere importante fu un Chateau La Tour, del quale non seppi dire altro se non “buono”. Durante quell’esperienza lavorativa ebbi modo di girare, per oltre due anni, le più importanti cantine dell’Austria, dove ho potuto conoscere i grandi Riesling, i Grüner Veltliner e i maglifici vini dolci. In seguito, nel 1999, tornato in Italia feci il primo corso da sommelier con l’AIS”.

Dunque una passione nata quasi per gioco che l’ha portata a lavorare in ristoranti di altissimo livello.

“E’ andata proprio così. Sono stato all’Hospiz Alm a Arlberg in Tirolo, uno tra i pochi Hotel Restaurant al mondo ad avere quasi esclusivamente una selezione di grandissimi formati, circa 900 pezzi, dai cinque litri in su. D’altra parte quel Restaurant, posto proprio sui campi da sci, era frequentato dal gotha di politici, potenti e grandi ricchi, tra cui – ricordo – anche la Principessa Diana e la Regina Elisabetta. Dopo meno di due anni mi sono trasferito in Francia, a Vonnas, per imparare la lingua, lavorando nel ristorante Georges Blanc, 3 stelle Michelin. E’ di quel periodo il mio diploma di Sommelier Conseil conseguito all’Università del Vino di Suze La Rousse, tra le più importanti al mondo. Successivamente mi sono trasferito a Londra con la mia compagna per continuare la mia formazione linguistica. Conoscevo bene, infatti, sia il tedesco che il francese, ma mi mancava l’inglese, quindi accettai di lavorare in un altro 3 Stelle Michelin, il The Waterside Inn a Bray”.

Qual è il ricordo più emozionante del periodo passato all’estero?

“Ce ne sono tanti, che è difficile sceglierne uno. Direi che tra i pranzi più importanti che ho seguito, c’è sicuramente quello per gli ottant’anni della Regina Elisabetta, al quale ha partecipato tutta la Royal Family. Ricordo che qualche mese prima il General Manager del Waterside Inn mi informò che, di lì a qualche mese, avremmo avuto un pranzo molto importante per il quale avremmo dovuto scegliere i migliori vini della cantina, senza alcun limite di spesa. Come aperitivo, per esempio, servimmo uno Champagne Pommery Louise 1989”.

Ricorda cos’ha bevuto la Regina?

“Ha pasteggiato a Gin tonic, come il Principe consorte, Filippo, che ha chiesto una caraffa di tonica a parte. Il pranzo fu servito in una saletta privata, collocata in un’ala distaccata del ristorante, con un vasto e rigoglioso giardino tutt’intorno”.

Dopo 12 anni passati all’estero, nel 2006, torna in Italia per diventare Chef Sommelier del tristellato Da Vittorio. Cos’ha imparato dalla famiglia Cerea?

“Molte cose, ma quello che li contraddistingue è l’estrema flessibilità, difficilmente trovata in egual misura all’estero. Se c’è un cliente che chiede una variazione sul menù o se fa ritardo, per esempio, si cerca in tutti i modi di accontentarlo. So per certo che se il cliente di un qualsiasi altro ristorante stellato francese, dovesse chiamare per chiedere di tenere aperta la cucina oltre l’ora prevista, si sentirebbe dire un deciso “mi dispiace, ma non è possibile”. Da Vittorio, al contrario, il cliente è considerato il padrone di casa”.

Qual è il vino del cuore della famiglia Cerea?

“Forse è il Rosso Faber, un vino fortemente voluto e pensato per radicare ancora di più i sentimenti e il lavoro della famiglia Cerea. Si tratta di un taglio bordolese ottenuto da Cabernet Sauvignon e Merlot coltivati nel vigneto che circonda il Relais, memoria di una tradizione agricola rivitalizzata grazie ai reimpianti realizzati con le tecniche più moderne”.

Quando gli Chef creano dei nuovi piatti, tutta la brigata viene coinvolta?

“Certamente, perché quando cambia il menù in base alla stagione tutto il gruppo di lavoro deve essere formato. Nella settimana del cambio menù, quindi, vengono fatti assaggiare tutti i piatti. Nel mio caso posso anche chiedere di fare degli assaggi durante le serate, per capire meglio un ingrediente o una cottura per abbinare il miglior vino possibile”.

Rispetto all’assegnazione delle Stelle Michelin, venite avvertiti dell’arrivo o dell’identità degli ispettori?

“No. Sappiamo che possono arrivare in qualunque momento, in genere due o tre volte all’anno, ma non sappiamo chi siano. In realtà Da Vittorio ogni cliente viene trattato con la stessa attenzione e cura, senza alcuna differenza di sorta. L’obiettivo è quello di far passare un bel momento al nostro ospite, chiunque egli sia”.

Dal momento che anche il servizio concorre all’attribuzione delle Stelle, le sente un po’ sue?

“No, non mi permetterei mai di dirlo. E’ chiaro che per l’attribuzione delle Stelle Michelin vi dev’essere alta uniformità qualitativa tra la location, la cucina e la sala. Ognuno fa la sua parte”.

La mettiamo alla prova. Ci propone tre piatti degli Chef Cerea in abbinamento a tre vini della vostra selezione?

“Certamente. Inizierei con un Cappuccino di spuma di patate con funghi porcini cacao e tartufo bianco, abbinato a un Terre di Franciacorta Chardonnay 2010 Az. Ag. Cà del Bosco. A seguire delle Linguine all’amatriciana di pesce con un Colli Tortonesi Timorasso “Fausto” 2011 Vigne Marina Coppi e come secondo di carne un Filetto di vitello piemontese alla Rossini con un Barolo Brunate 2006 Az. Vit. Ceretto”.

In vent’anni di carriera, di cui 12 anni passati all’estero, quali sono state le tre grandi emozioni enologiche?

“Ricordo che quando lavoravo da Georges Blanc ho aperto uno Chateau d’Yquem del 1937, considerato dalle guide di settore il vino “perfetto” da 20 punti su 20. Un noto giornalista svizzero di settore ebbe modo di dichiarare che, unica eccezione al mondo, avrebbe dato a quel vino 21 punti su 20, se avesse potuto. Ricordo che il profumo di bergamotto troneggiava elegantemente su tutti gli altri: quello Chateau d’Yquem era ancora un fanciullo dopo settant’anni! Un’altra esperienza rara l’ho vissuta al Waterside Inn di Londra, quando ho servito a tre arabi il vino più importante della mia vita, un La Tâche Grand Cru Romanée-Conti del 1978, l’annata più vecchia in carta. Ricordo che quando ho versato il primo sorso nel bicchiere, i profumi del vino si sono diffusi in tutta la sala. Non avevo mai sentito un vino con aromi terziari evoluti tanto intesi di tartufo, goudron, pelle e rum, da coprire una distanza di almeno quattro metri quadrati, tutt’intorno alla bottiglia. Non ultimo, Da Vittorio abbiamo, ancora per poco, un Cognac L’Heraud Grand Champagne 1802 a dir poco favoloso. Si tratta di una bottiglia di sei pezzi, forse rimasta l’unica al mondo. Il prezzo stimato per un bicchiere è di circa 1.000 euro”.

In quale occasione è stata aperta la bottiglia?

“Pochi anni fa, per un grandissimo estimatore di vini e distillati canadese. Già da tempo, infatti, stavamo aspettando la persona giusta a cui proporlo, perché sia io che la famiglia Cerea desideravamo che il primo assaggiatore fosse un vero esperto. L’occasione giusta è arrivata a fine cena, quando fui lui stesso a chiederci se era possibile aprire quella rarità. Erano le 2.30 del mattino quando scesi a prendere la bottiglia in cantina. Chiamai a raccolta tutta la famiglia Cerea per quell’evento, che fu straordinariamente emozionante per tutti noi. Quel Cognac era favoloso, con una persistenza di qualche ora in bocca, che tornava a più riprese con straordinaria eleganza. Ricordo perfettamente gli aromi della nocciola, che viravano verso la torrefazione e il pellame, per poi chiudersi in bocca con una potente speziatura che non finiva mai. Oggi di quel Cognac rimangono, forse, ancora un paio di bicchieri”.

Da ultimo, che consigli darebbe a un giovane sommelier?

“Di essere umile e di continuare a studiare. Mai sentirsi arrivati e cercare di trarre i migliori insegnamenti da tutti. Solo così si può iniziare a capire il mondo del vino”.

 


Settimana della birra artigianale, in Bergamasca quattro indirizzi

settimana birra artigianaleLa Settimana della Birra Artigianale è un evento che vuole promuovere la birra di qualità su tutto il territorio nazionale. La manifestazione si svolge da lunedì 2 a domenica 8 marzo coinvolgendo centinaia di professionisti operanti nel settore, come pub, birrerie, beershop, birrifici, ristoranti e associazioni. Sono quasi 450 i partecipanti su tutto il territorio nazionale, uniti dall’obiettivo comune di offrire tante occasioni per far conoscere meglio il mondo delle birre di qualità.

Durante la Settimana della Birra Artigianale è perciò possibile partecipare a serate di degustazione, presentazioni di nuove birre, concorsi di homebrewing, visite agli impianti di produzione, menù speciali, incontri con i produttori e altro ancora.

Attualmente sono quattro le insegne bergamasche che hanno aderito: i beershop La botte piccola di Cisano Bergamasco, Artigianbeer di Ponte Nossa e Passione Birra di Ranica e la birreria Pozzo Bianco a Bergamo alta.

Sul sito www.settimanadellabirra.it è possibile consultare l’elenco degli aderenti e le iniziative proposte, suddivise per regione.


La pizza d’asporto vuole fare il salto di qualità. Casillo: «Ma ai pizzaioli manca l’umiltà»

È una delle preparazioni più conosciute e celebrate e, secondo alcuni dati relativi al 2013 elaborati da Accademia Pizzaioli e Ristorazione Italiana Magazine, coinvolge circa 63.000 esercizi commerciali, di cui circa 42.000 ristoranti-pizzerie e 21.000 pizzerie d’asporto.

Per molti questo alimento è diventato semplicemente un ripiego, ma sono in crescita i consumatori che stanno ponendo sempre più attenzione a ciò con cui si nutrono, grazie anche alla maggiore disponibilità e reperibilità di informazioni. Le persone sono quindi più esigenti e più selettive. E non è da sottovalutare nemmeno il fenomeno, sempre più frequente, dell’“home made”, di chi decide cioè di prepararsi la pizza in casa, creando un’occasione divertente e diversa attraverso cui possono toccare con mano ciò che poi andranno a mangiare, ma non solo: sapranno con certezza quali materie prime sono state impiegate per la preparazione.

Il consumatore, quindi, si sta trasformando e i pizzaioli? Anche! Soprattutto nel mondo delle pizzerie d’asporto. Ne è un esempio Tiziano Casillo, che ora si trova a girare per il mondo per insegnare l’arte della pizza. «Ho iniziato a fare la pizza all’età di 12 anni a Chiuduno, il mio paese d’origine – racconta –, ho proseguito poi gli studi diplomandomi alla scuola alberghiera di Iseo e sono andato a lavorare come pizzaiolo in un ristorante pizzeria di Seriate. Infine ho aperto la mia pizzeria, ad Albegno di Treviolo». La curiosità, la continua formazione e l’interesse a fare sempre meglio hanno portato Casillo a collaborare con una grande azienda, per cui ora lavora come formatore. «Mi occupavo delle dimostrazioni – ricorda Tiziano –, poi l’azienda ha approfondito la collaborazione e mi ha formato tecnicamente. Attraverso l’attività di questa azienda, circa 10 anni fa, abbiamo iniziato a portare nelle pizzerie il lievito naturale e farine diverse da quelle utilizzate da sempre: stiamo cercando di far lavorare i pizzaioli con farine di qualità, certificate di origine italiana e prodotte all’interno di diversi progetti specifici che coinvolgono anche alcune università. Farine che garantiscono una maggiore qualità nel risultato, a patto che siano lavorate con conoscenza e organizzazione». Quindi la formazione prima di tutto, ma anche una migliore organizzazione delle attività e una maggiore conoscenza e capacità di scelta delle materie prime, anche se «purtroppo c’è ancora troppa poca umiltà – afferma ancora Casillo – da parte dei pizzaioli, che non permette loro di mettersi in gioco e migliorarsi. Investire sulla conoscenza e sull’utilizzo di materie prime migliori porterà migliori risultati, anche in termini economici».

Ecco che quindi concetti come scelta delle materie prime, utilizzo di ingredienti freschi e di stagione, diversificazione delle tipologie di pizza, ma anche degli impasti stessi, sono parole d’ordine che stanno arrivando pian piano anche nel mondo della pizza d’asporto, quella che nell’idea comune è consumata velocemente nel cartone, magari davanti alla televisione, senza attenzione alcuna a cosa si stia ingerendo e al lavoro del pizzaiolo. Quale è il sogno nel cassetto di Tiziano Casillo, pizzaiolo e formatore, riguardo la pizza? «Aprire una pizzeria in cui la pizza sia trattata al pari di un piatto da ristorante gourmet», forse questa preparazione così celebrata se lo merita, no?


Raspelli: «Un vino da scoprire? Il Valcalepio»

Edoardo Raspelli Bergamo, la conosce bene. Sa quali sono i suoi punti di forza e di debolezza sul fronte alimentare, immagina che l’Expo possa cambiare qualcosa ma senza farsi troppe illusioni. Il celebre giornalista enogastronomico parla in questa chiacchierata a cuore aperto, a tratti persino cruda e disillusa ma sincera, di cibo, del suo rapporto complicato con il maestro Veronelli, del Valcalepio troppo sottovalutato, di certi giudizi su cucine e ristoranti fai-da-te a suo parere inutili, di un Natale in cui non ha l’abitudine (sorpresa!) di regalare leccornie.

Raspelli, il food italiano è a una svolta: quali vantaggi e quali rischi vede nell’operazione Expo?
“Gli scandali che si sono susseguiti negli ultimi mesi non mi fanno sperare molto: non vorrei che i 25 milioni di visitatori (ma oggi si è scesi già a 20!) fossero solo un’ipotesi. Nel 2013 in Francia sono andati 45 milioni di turisti, da noi 23. Siamo sicuri di non aver sperato troppo (e faccio corna e bicorna)? Sarei felice poi se le attrezzature e i padiglioni continuassero a vivere ben oltre la fine di ottobre 2015”.

C’è qualche prodotto italiano, sottovalutato, che potrebbe invece essere rilanciato proprio grazie a questo grande evento?
“Forse l’ortofrutta, che è misconosciuta anche in casa nostra: vini, oli e formaggi, invece, sono da sempre sugli scudi”.

A Natale il food è sempre di moda: cosa regala di solito Raspelli ai veri amici ?
“Potrà sembrare strano, ma non faccio regali, se non qualche cosa in famiglia: detesto gli obblighi, soprattutto a Natale che, come tutte le feste religiose, non sento più da anni”.

Una bottiglia di vino: ci aiuti a scoprire qualche chicca meno conosciuta?
“Il Valcalepio, la Valcamonica: non hanno certo la fama e la grandezza (e nemmeno la qualità) di Langhe o Toscana, ma danno l’occasione di bere e di scoprire le buone curiose bottiglie della propria terra, del proprio territorio, delle proprie tradizioni”.

Bergamo è la capitale dei formaggi Dop: quale produzione ama di più?
“Mi piacciono le produzioni meno note, a parte naturalmente il Taleggio e tutti i piccoli grandi prodotti delle montagne: ma nella Bassa, inaspettati, ci sono la mozzarella di latte di bufala e caprini assolutamente straordinari”.

Proprio Bergamo, in occasione di Expo, varerà un Fuori Expo riproponendo la grande figura di Veronelli, i suoi vini da collezione e le sue battaglie. I vostri rapporti non sono stati sempre idilliaci: che tipo era il Gino visto da un competitor, ma anche da un uomo che gli è stato vicino come Raspelli?
“Con Veronelli mi legava un rapporto di odio-amore come tra padre e figlio: mi ha insegnato tante cose ma gli sono anche stato utile. Mi fece anche una querela dopo una critica garbata (querela che Gino perse: era a proposito dell’olio denocciolato). E pensare che oggi il giornalismo è morto e quasi tutti quelli che scrivono sono diventati organizzatori di eventi con cuochi, ristoratori e produttori (su cui, ovviamente, guadagnano). Lui era, comunque, un grande: chi, dopo di lui, ha la voglia ed il coraggio di scrivere che quel dato vino non gli piace?!”.

C’è un prodotto, un piatto della memoria, di cui Raspelli non potrebbe fare a meno?
“Bendaggio gastrico a parte, il mio poker ideale va dai gamberi crudi, al bollito misto (con la lingua), fino a  trippa e cassoeula…Peraltro da qualche tempo ho un incubo ricorrente: mi ritrovo ad assaporare carne di un essere vivente ucciso….”.

Ai tempi di Tripadvisor, pensa che certe guide ne escano ridimensionate? Non crede che il pubblico della rete sottovaluti certe “deviazioni” di una valutazione fai-da-te?
“Tripadvisor serve solo come una guida del telefono: per me è totalmente inutile. La critica è critica: nel giudicare una partita di calcio, il canto di un tenore, un balletto, un libro, bisogna essere esperti e disinteressati. La stessa cosa per cibi, ristoranti ed alberghi…”.

Cosa, durante un pranzo o cenone di Natale, non deve mai mancare a tavola?
“Agrumi, frutta secca e panettone: anche se non ci credo più, per il giorno di San Biagio, il 3 febbraio, tengo sempre una fettina di panettone aperto a Natale, da assaggiare”.

Infine, c’è un prodotto o un vino della nostra enogastronomia che è diventato un “cult” e che proprio non sopporta?
“Panna, rucola e aceto balsamico, quest’ultimo, badate bene, non tradizionale: li trovi ormai ovunque”.

 


Lo chef bergamasco che ha conquistato le Cayman

Adriano Usini BigNei pressi di George Town, nell’arcipelago delle Grandi Antille, si snoda una distesa di finissima sabbia bianca corallina lunga sette miglia. Questo luogo incontaminato dove vige l’esenzione fiscale fin dai tempi di re Giorgio III d’Inghilterra rappresenta, grazie alla massiccia presenza di alberghi di lusso, un’ambita meta turistica. E di certo Adriano Usini non poteva scegliere di meglio per consolidare la sua esperienza lavorativa all’estero. Originario di Caravaggio, questo cuoco 44enne oggi è il capo chef del ristorante “Ragazzi” di Grand Cayman, la maggiore delle tre isole che compongono il territorio britannico d’oltremare delle Cayman Islands.

Salone arioso dall’aspetto accogliente e pareti di legno chiaro rallegrate da opere d’arte ispirate al mondo marino, questo locale italiano offre una serie di specialità che vanno ben oltre i cliché culinari a cui i turisti sono stati a lungo abituati. Accanto a grandi classici come lasagne alla bolognese, fettuccine al pesto e gnocchi ai quattro formaggi, nel menù si possono trovare gustosi piatti di pasta fresca, dalle orecchiette con broccoli e gamberetti a originali casoncelli in salsa di funghi e olio di tartufo. Tra i secondi spiccano carpaccio, insalata caprese, scaloppine al limone, pollo al Marsala, fritto misto, il tutto accompagnato da focaccia e grissini fatti in casa. C’è poi una vasta selezione di vini che, oltre alle classiche marche francesi e austriache, propone una vasta gamma di etichette italiane, dal Prosecco al Chianti, al Barolo.

Con 755 recensioni e un certificato di eccellenza conquistato nel 2014, Ragazzi si piazza al terzo posto, su 52 ristoranti presenti a Seven Mile Beach, tra le preferenze degli internauti di Tripadvisor. Ben 506 utenti giudicano questo locale “eccellente”, 188 “molto buono”, 38 “nella media”, 12 “scarso” e 11 “pessimo”.

Com’è iniziata la sua passione per la cucina?
Ho frequentato la scuola alberghiera a Clusone. All’età di 17 anni, mi sono imbarcato su una nave della Princess cruise per una esperienza di sei mesi all’estero, tra Stati Uniti, Canada, Alaska e Caraibi. Poi sono tornato in Italia e ho lavorato per sette anni a Milano al ristorante Orti di Leonardo e poi al Salotto in piazza Duomo. Nel gennaio 1997 mi sono definitivamente trasferito alle isole Cayman.

È vero che gli stranieri hanno una visione stereotipata della cucina italiana?
«I nostri clienti sono in larga parte americani e devo dire che hanno gusti abbastanza particolari. Sono convinti, per esempio, che tra le specialità italiane ci siano spaghetti con le polpette, pollo alla parmigiana e la pasta Alfredo, ovvero un facsimile delle nostra pasta burro e formaggio con la differenza che loro mettono la panna al posto del burro e ci aggiungono pollo o gamberetti. In effetti sono ricette italiane ma con delle variazioni abbastanza pesanti che, secondo il mio punto di vista, rovinano la classicità della cucina italiana basata su cibi leggeri e molto digeribili».

Ci sono dei piatti tipicamente italiani che ancora non è riuscito a far apprezzare agli stranieri?
«Non apprezzano la semplicità di una bella aglio, olio e peperoncino».

Quali sono i piatti forti del suo ristorante?
«Il nostro menù è basato principalmente sulla pasta fresca, in particolare ravioli fatti in casa. Abbiamo qualcosa di simile ai casoncelli ma cucinati con funghi freschi saltati e olio di tartufo. Ci sono poi le orecchiette alla pugliese con broccoli al posto delle cime di rapa, qui impossibili da trovare, e gamberetti. E ancora gnocchi fatti in casa ai quattro formaggi, panna, brandy e pistacchi tostati».

Ha mai dovuto piegarsi alle esigenze dei clienti cambiando in corsa qualche sua ricetta?
«I piatti sono tutti molto apprezzati ma ho dovuto cambiare tutte le ricette originali per andare incontro ai gusti dei nostri clienti».

Cosa ne pensa delle recensioni di Tripadvisor?
«A volte sono utili perché ci sono critiche molto costruttive. Il dramma è quando scrivono commenti quei clienti americani che hanno un’idea distorta della cucina italiana. È la tipologia di clientela più pericolosa per la nostra reputazione perché magari va in giro a dire che le nostre non sono ricette italiane originali soltanto perché sono differenti da quelle che trova abitualmente nei fast food vicino casa».

Ha una famiglia che le sta sempre vicino?
«Sì, qui a Grand Cayman ci sono mia moglie Katiuscia, anche lei di Caravaggio, e i nostri tre splendidi bambini: Alessandro, 13 anni, Mattia (8) e Leonardo (2). Sono tutti e tre nati a Cayman e parlano perfettamente inglese e italiano, Alessandro anche lo spagnolo. I miei genitori, invece, risiedono tuttora a Caravaggio, vado a trovarli ogni anno tra luglio e agosto quando qui è bassa stagione».