Nel pubblico le commissioni non possono oltrepassare il 5%, mentre nel privato arrivano a sfiorare il 20%. La sfida è quella di cercare di uniformare i due settoriLa questione è delicatissima ed intricata quanto basta per creare più di qualche pensiero ai tanti ristoratori che da tempo stanno interrogandosi sull’effettiva opportunità di continuare o meno ad accettare i buoni pasto. Diciamolo subito: una risposta giusta, capace di soddisfare esigenze ed aspettative di tutti non c’è. Da una parte serbatoio di clientela che facilmente può fidelizzarsi al proprio locale, dall’altra i buoni pasto rappresentano un prezzo a volte troppo alto da pagare, se si vuole restare sul mercato: commissioni esorbitanti, tempi di pagamento molto lunghi (si parla di settimane per ricevere il corrispettivo in denaro) e in alcuni casi anche l’incertezza della tenuta delle società emettitrici (leggi: fallimento di Qui! Group, che nel 2018 finì a gambe all’aria con 325 milioni di euro di debiti, pagati in gran parte proprio dai commercianti, che per molto tempo avevano continuato ad accettare ticket che non sono più stati rimborsati).
Chi è del mestiere questi meccanismi li conosce bene: chi acquista i buoni pasto dalle società emettitrici, lo fa chiedendo sconti anche a doppia cifra, che poi si traducono in commissioni fino al 15-20% a carico dei titolari di bar e ristoranti, sottoforma di commissione. Lo scorso mese di marzo un primo, importante passo per sbrogliare la matassa è stato fatto, grazie anche al meticoloso lavoro ai fianchi della Fipe, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi. Nell’ultima gara d’appalto che si è chiusa a inizio primavera, la Consip – società per azioni del Ministero dell’Economia che si occupa della gestione dei servizi – ha fissato al 5% il tetto massimo delle commissioni che le società emettitrici di buoni pasto possono chiedere ai commercianti.
Una svolta (quasi) epocale, che però non risolve del tutto il problema. Questa condizione vale infatti solo per il mercato pubblico, che pure vale un miliardo e 250 milioni di euro l’anno, pari a poco più di un terzo del giro d’affari complessivo. Resta dunque scoperto il settore privato, che di miliardi ne vale addirittura 2, e sul quale il peso dello Stato non può farsi sentire. Oggi il rischio più evidente per il titolare di un locale è quello di ricevere buoni pasto di Serie A e buoni pasto di Serie B, ovvero ticket sui quali si ritrova a pagare il 5% di commissioni e altri sui quali la percentuale può arrivare a sfiorare il 20%, con ripercussioni non solo sul cassetto del ristorante, ma anche sul servizio ai clienti (a tutti i clienti, ovviamente, non solo quelli che si presentano coi buoni). E vedremo come.
Nel frattempo aver «sistemato» il comparto pubblico rappresenta un primo obiettivo raggiunto: «Si era arrivati a condizioni di vendita con sconti a monte troppo alti, che generavano commissioni ancora più elevate e, dunque, insostenibili per i commercianti – spiega Oscar Fusini, direttore di Ascom Confcommercio Bergamo –. Lo Stato risparmiava tanto, ma tutti questi soldi venivano poi ricaricati sugli esercenti». Ora le cose sono cambiate: nella commissione massima del 5% rientrano anche gli eventuali servizi aggiunti (ad esempio i pagamenti più veloci o anticipati), che normalmente le società si facevano pagare con ulteriori ritocchi alle loro percentuali. Tutto questo è senz’altro un bene: si stima che solo in Lombardia la mossa di dare un freno alle commissioni per il settore pubblico genererà un risparmio di 14,1 milioni di euro all’anno per i commercianti. «Siamo di fronte a una manovra importante – dice ancora Fusini –. Resta però ancora da definire il mercato privato e con esso altre questioni legate all’innalzamento della qualità del servizio e al superamento del concetto del massimo ribasso». Altri nodi da sciogliere sui quali però l’impressione è che non sarà così facile intervenire, non almeno nel breve periodo.
Il fenomeno dei buoni pasti non è affatto marginale: nella sola provincia di Bergamo sono circa 59mila lavoratori tra settore pubblico e privato a riceverli, e sono sempre più numerosi: dopo la pandemia il numero di coloro che riscuoto i ticket ogni mese è cresciuto di 2mila unità per effetto dell’incremento dei servizi legati al welfare aziendale. Il valore complessivo si aggira intorno ai 70 milioni di euro all’anno in Bergamasca, con una media di poco superiore ai 1.200 euro all’anno per lavoratore, pari a 5,36 euro al giorno, di certo non il valore di un pasto, ma un buon contributo (il buono mutua il valore di un pasto servito in una mensa aziendale). I punti vendita che accettano i buoni pasto sono circa 800.
«Stiamo parlando di uno strumento che risulta essere ancora efficace – spiega Fusini–; al lavoratore piace perché è molto spendibile: serve per mangiare, ma anche per fare la spesa, ed è un’integrazione al reddito del tutto defiscalizzata. I buoni pasto piacciono anche perché sono molto flessibili nell’utilizzo, basti pensare che tanti di coloro che non li hanno, vorrebbero beneficiarne. Per il datore di lavoro è innanzitutto uno strumento che fa parte del welfare aziendale e che serve in qualche modo a fidelizzare i dipendenti e a gratificarli, con un onere contributivo e fiscale davvero minimo per l’azienda». Al netto delle difficoltà che permangono in un contesto ancora troppo variegato, i benefici ci sono e «pesano» non poco sulla circolazione dei buoni pasto e sulle loro prospettive future. «Con l’ultima gara Consip è stato ottenuto un primo risultato, ma occorre sistemare l’impianto normativo per migliorare l’equilibrio della filiera anche nel settore privato– insiste Fusini, richiamando l’obiettivo sul quale è necessario continuare a lavorare–. Si deve impedire, per esempio, alle aziende di spuntare il massimo ribasso, che si traduce in commissioni insostenibili per i commercianti, puntando in questo modo ad aumentare il livello della qualità e della fruibilità del buono pasto».
Commissioni ragionevoli e dunque più sostenibili, insieme a tempi di pagamento più certi: sono questi i prerequisiti necessari per indurre ad accettare i buoni pasto anche chi attualmente preferisce non averci a che fare. Spesso si tratta di locali di un certo livello che se entrassero nel giro dei buoni pasto, potrebbero contribuire a trascinare verso l’alto la qualità media dell’offerta, ma che in questo momento non hanno interesse a farlo. «Per questo motivo – conclude il direttore di Ascom – si deve lavorare per rendere sostenibile a lungo termine tutto il processo di filiera, a vantaggio di chi acquista i ticket, di chi li compra e degli esercenti che li accettano».
Eccola, dunque, la sfida per il prossimo futuro: provare a metter mano alla giungla del settore privato che viaggia ancora con commissioni «libere». E qui la palla passa di nuovo tra i piedi della Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi: «Stiamo lavorando su più fronti – spiega Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi di Fipe –. Siamo impegnati innanzitutto in un’azione di “persuasione morale” nei confronti dei datori di lavoro privati e in particolare delle grandi aziende che acquistano i buoni pasto per i loro dipendenti, Stiamo cercando di sollecitarli a un’assunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder della filiera. Se loro pretendono dagli emettitori uno sconto esagerato, è chiaro che l’emettitore lo ribalta a sua volta sugli esercizi convenzionati».
Per l’azienda, vale la pena ricordarlo, sono totalmente deducibili e decontribuiti i buoni pasto fino a 8 euro (se elettronici; quelli cartacei lo sono fino a 4 euro). «Stiamo lavorando anche per capire quale potrebbe essere lo strumento più adatto per regolare il sistema. La verità è che il codice degli appalti non vale per i contratti privati e il tetto del 5% che abbiamo ottenuto sulle gare pubbliche non si applica alle aziende». In altre parole, una soluzione ancora non c’è: compito della Fipe è quello di trovarne una per fare in modo che anche ai contratti privati si possa applicare una commissione massima che non superi il 5%. Se la cosiddetta «moral suasion» sulle aziende sortirà qualche effetto lo vedremo nei prossimi mesi, ma probabilmente non prima della fine dell’anno, quando si avranno – è questo l’auspicio – i primi risultati di un’iniziativa di comunicazione in programma per la ripresa delle attività lavorative dopo l’estate.
«Il rischio al quale siamo esposti con queste commissioni non è tanto quello di ritrovarci con dei buoni pasto a doppia velocità – è l’opinione di Luciano Sbraga –. Semmai stiamo registrando lamentele da parte dei lavoratori rispetto al fatto che alcune tipologie di buoni non vengono accettate nei locali. Alcune commissioni sono troppo alte e gli esercenti possono decidere di non prendere alcuni ticket, rinunciando però a dare un’opportunità in più ai loro clienti. Il danno è per entrambi: il lavoratore sa di non poter avere un servizio, mentre per l’esercente essere costretto a rinunciare a un cliente è sempre un problema».
In alcune regioni è anche possibile che una stessa azienda emettitrice abbia sottoscritto contratti sia con lo Stato che con qualche datore di lavoro privato: e così buoni pasto apparentemente uguali possono avere un peso anche molto diverso per le tasche dei ristoratori.
Il fatto è che quando una vendita presenta più costi che benefici, al titolare di un bar o di un ristorante non resta che farsi due conti in tasca e per mandare avanti l’azienda può vedersi costretto anche a rinunciare a qualche coperto. L’alternativa è quella di trasferire i costi anche sugli altri clienti, ma ciò vorrebbe dire aumentare prezzi per tutti, anche per chi paga in contanti (o comunque senza buoni pasto). «Ma anche in questo caso non è facile prendere una decisione – dice ancora Sbraga –. L’esercente deve fare i conti con il mercato, e non può permettersi né di aumentare i prezzi in modo indiscriminato, né tantomeno di abbassare troppo la qualità, rischiano di perdere i clienti».
Un equilibrio che non è per niente facile da raggiungere; la soluzione meno indolore, al momento, resta dunque quella di non prendere i buoni pasto che hanno commissioni insostenibili. Fare leva sui lavoratori non è possibile perché, a parte il disagio di non vedersi accettare i propri ticket in alcuni locali, per loro il valore del buono pasto resta quello nominale, a prescindere dalle commissioni. Anzi, molto spesso coloro che usufruiscono dei ticket non sono a conoscenza delle dinamiche che s’intersecano dietro il blocchetto dei loro buoni pasto, «e non si rendono conto che l’eventuale disservizio non è altro che il risultato finale di una scelta che fa il suo datore di lavoro quando vuole risparmiare eccessivamente sull’acquisto di quel servizio – puntualizza il direttore del Centro Studi di Fipe –. Da parte loro, anche gli emettitori hanno una parte di responsabilità, poiché rappresentano la cinghia di trasmissione tra il datore di lavoro e l’esercente, ma è evidente che se possiamo parlare di “ingordigia”, questa è tutta del datore di lavoro». E non sembra percorribile neppure la strada in una forma di tassazione da mettere in capo alle aziende private per scoraggiarle a chiedere sconti sempre più elevati.
In attesa di un non facile soluzione, un’altra questione ancora aperta e sulla quale la Fipe come rappresentante dei gestori dei locali è chiamata a fare una riflessione, riguarda i costi aggiuntivi legati alla gestione dei Pos. Nei bar e nei ristoranti ce ne sono ancora tanti e l’obiettivo è quello di riuscire ad avere un Pos unico per tutti. Un’opera di semplificazione, anche questa, di portata eccezionale, che però coinvolge anche gli istituti di credito, aumentando il coefficiente di difficoltà. «Ancora non si trova la strada per farlo – ammette Sbraga –, ed è un altro motivo per cui molti esercenti sono scoraggiati dall’accettare i buoni pasto. Ormai sulla questione dei buoni pasto elettronici la strada è tracciata: lo sono tutti i ticket oggetto dell’ultima asta pubblica, e parliamo già di un terzo del totale, e anche nel privato la percentuale di chi li adotta in questa forma è sempre più rilevante».