Qualche tempo fa, nel mondo roseo e rarefatto delle filosofie positive, si è affermato il concetto di “regresso sostenibile”: in pratica, di un progressivo ritorno ad alcune abitudini di produzione e consumo meno frenetiche, meno polarizzate intorno alla crescita finanziaria e meno dannose per il pianeta. Sostanzialmente, sarebbe come dire: scusate, ci siamo sbagliati, il turbocapitalismo è un’immensa vaccata che non ci rende più felici e più sani, perciò facciamo retromarcia pianin pianino.
Saper ammettere che si è sbagliato è una qualità tra le più rare e le meno praticate, nella nostra società: se lo si facesse, ogni tanto, assisteremmo ad ammissioni di colpa e ad inversioni di tendenza che avrebbero del clamoroso. Pensate, ad esempio, se i responsabili del progressivo annientamento della nostra civiltà educativa dichiarassero pubblicamente che la scuola nata dalle sperimentazioni post sessantottesche è un fallimento cosmico, domandassero scusa, ed invertissero la marcia: che botta al loro orgoglio di pedagoghi parolai, e che botta di culo per i nostri figli e nipoti! Oppure, se qualcuno ammettesse che le meravigliose prospettive delle privatizzazioni industriali si sono, col tempo, trasformate in una svendita all’incanto dei pezzi più pregiati della nostra industria ad aziende straniere, col solo risultato di impoverirci e cancellarci dal novero delle potenze produttive: provate a pensare ai vari economisti da barzelletta, che fanno mea culpa davanti all’Italia intera. Come quello che diceva che, con l’euro, avremmo lavorato un giorno in meno, guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più: mia mamma, che confonde ancora l’euro con la lira e mi dice che il latte costa mille euro, ha una visione macroeconomica più lucida! Eppure, nessuno chiede mai scusa, per le macroscopiche bischerate messe in campo, in ossequio a qualche teoria, tanto fumosa quanto palesemente fuori baricentro: tutti colpevoli e nessun reo confesso.
Orgoglio, improntitudine, semplice disprezzo per il prossimo, sono gli ingredienti di questa assoluta incapacità di autocritica: di questo negare la propria colpa fino al paradosso. Noi stiamo andando in pezzi: è bene saperlo, un attimo prima della deflagrazione. Il nostro modello di società si sta sgretolando, in uno scenario desolante, in cui i pochi ricchi accumulano e la gente normale non ha un futuro e, talvolta, neppure un presente: il modello del welfare state fa dormire gli Italiani in automobile e fa rovistare i pensionati nei cassonetti. La nostra struttura economica si avvia al crollo: la mancanza di sovranità monetaria, i diktat di un’Europa a trazione anteriore, l’iperfiscalismo isterico che cerca di tamponare la falla di un debito pubblico insostenibile, legato proprio all’impossibilità di pagare gli interessi che la non sovranità ci ha regalato, ci trascinano verso il fondo. E nessuno domanda scusa, nemmeno per sbaglio: nessuno ci racconta dove siano finiti, per davvero, i miliardi che a migliaia hanno preso la via del Mezzogiorno, senza arrivarci mai.
Come si fa a pensare che l’Italia possa sopravvivere, con due zavorre come il debito pubblico e il mancato sviluppo meridionale da risolvere? Eppure, su questo avete sentito parole di scusa? C’è un acquedotto pieno di buchi, che scorre a sud di Roma: è un acquedotto reale, che perde acqua, ma ce n’è anche uno metaforico, che perde denaro a fiumi: miliardi che si diluiscono in mille rivoli, che diventano favori, mazzette, superstipendi, consulenze d’oro, assunzioni inutili. E nessuno paga, nessuno confessa, nessuno domanda perdono alla gente che vive ancora nei container, a più di trent’anni dal terremoto in Irpinia. Perché nel nostro Paese si perdona prima che si confessi: si festeggia la salvezza prima di essere salvi, si annuncia la vittoria prima che la partita sia terminata. In buona sostanza, si mente al popolo perché lo si disprezza: si rifila alla gente qualunque balenga teoria, perché si considera la gente come una massa plastica di poveri deficienti. Benvenuti nell’Illuminismo del terzo millennio!
E, adesso, c’è la questione della guerra: siamo in guerra, il mondo è in guerra, andiamo alla guerra, basta guerre, mai più guerre, la guerra è bella ma è scomoda…E, di nuovo, nessuno chiede scusa: nessuno ammette di avere sbagliato tutto. La politica delle accoglienze, quella dei controlli, quella della leva obbligatoria, quella del garantismo ad ogni costo, quella dell’incertezza della pena: troppe ce ne sarebbero di cantonate micidiali. Ma voglio concludere questo articoletto apocalittico con parole di speranza e di pace. Due perline da Cimmino, prima di lasciarvi a più paludati commenti. Guerra: come si combatte una guerra asimmetrica? Non colpendo dove ve lo aspettate voi, all’Expo, al Giubileo, ma dove decido io: mentre mangiate al ristorante, ad esempio. Il terrorismo funziona così. Guerra: provate ad immaginarvi un terrorista in bicicletta: si è messo d’accordo coi suoi compagni usando normali lettere in normali buste, bucando un intelligence fatta solo di elettronica. Con la sua bicicletta percorre una ciclabile, dalle parti di Grassobbio: aspetta che arrivi un aereo, tira fuori dallo zaino un RPG, prende la mira con calma, spara e se ne va pedalando. E’ questa la guerra di cui stiamo parlando: stavolta, però, non aspettiamo scuse che non verranno mai…