Qualche volta le occasioni si ripresentano, ma bisogna essere veloci a coglierle. L’assemblea del 2 aprile ha permesso di chiarire cosa serve per controllare Ubi Banca Spa: il 25% del capitale. Quello che era già noto, cioè che i fondi erano sulla carta i padroni della banca controllando ben più del 40% del capitale, è diventato ufficiale. Il listone che si presentava con il 17% circa del capitale, dato per il 3% dal bergamasco Patto dei mille, per il 12% dal sindacato, a trazione bresciana, che ricalca l’ex patto di sindacato della Banca Lombarda (e che comprende anche il 2% della Fondazione Banca del monte di Lombardia) e per il 2% dalla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, ha raccolto in assemblea un altro 6,5%, arrivando al 23,5% del capitale. Ma questo non è bastato perché per meno di 12 milioni di azioni (circa 36 milioni di euro alle quotazioni attuali) è stato superato dalla lista dei fondi che ha sfiorato il 25% del capitale (222,8 milioni di azioni)
Di fronte a questa situazione, le velleità bergamasche di riuscire a controllare la banca devono definitivamente rinunciare a fare appello alla storia e alla tradizione e fare conto con questi numeri. Anche concedendo – che è plausibile, ma comunque da dimostrare – che chi si è aggiunto in assemblea al listone, quindi circa il 6% del capitale, sia bergamasco, anche se non aderisce al Patto dei Mille, che ha posto come vincolo di entrata il possesso di 100 mila azioni, si arriva al 9%, cioè una quota comunque inferiore a quella del sindacato bresciano, anche al netto dell’apporto cuneese.
Se Bergamo non riesce a esprimere nemmeno il 10% in assemblea, quota peraltro che non la rende assolutamente sovrarappresentata al vertice, ma semmai il contrario, c’è da pensare che la “sua banca” se la sia venduta (del resto i fondi da qualcuno devono pur avere comprato), perché è andato perso l’equilibrio che esisteva all’inizio della fusione Ubi in termini di capitale tra la bergamasca Bpu (dove però c’era una frammentazione tra un grande numero di soci) e la bresciana Banca Lombarda (dove l’azionariato era più compatto). Oppure, e non è da escludere, che la scelta di un Patto dei Mille sia stata vista come aliena dai piccoli azionisti che in assemblea non si sono nemmeno presentati e che non hanno intenzione di fare i portatori d’acqua ad altri interessi nonostante il comune territorio. Così i grandi azionisti di Bergamo, se vogliono continuare a contare nella banca, non hanno altra alternativa che ricomprarsela, E qui, appunto, c’è la seconda opportunità che si è ripresentata, seppure temporaneamente.
Giovedì la quotazione di Ubi era scesa a un minimo di 2,8 euro, per una capitalizzazione di 2,5 miliardi. A quel punto, almeno da un punto di vista teorico, perché gli scambi non hanno raggiunto quei volumi, acquistare il 20 per cento di Ubi che, aggiunto a quel 5% che ragionevolmente è stato espresso in assemblea, darebbe il controllo, costava meno di 500 milioni, valore peraltro dimezzato rispetto a inizio anno. Le quotazioni nei giorni successivi hanno ricominciato a salire, evidentemente perché qualcuno ha iniziato a comprare in maniera vigorosa tutto il sistema bancario che prima veniva venduto in maniera acritica, riducendo la convenienza e richiedendo un maggiore esborso. Ma gli acquisti, appunto, sono proseguiti. Se a comprare sono stati bergamaschi, lo si vedrà in futuro, ai proclami sono finalmente seguiti i fatti. Ma se non stati loro e sono stati i primi a non credere nella “loro banca” allora sarebbe bene che il discorso sulla bergamaschità si chiudesse veramente per sempre.