Il Nobel che viene o il Nobel che muore? Stando alle aspettative dei miei tre o quattro lettori, Dario Fo o Bob Dylan dovrebbero arroventare il mio “polemico” di questa settimana. A ben considerare, per l’uomo della strada, forse, ci sarebbe da polemizzare abbondantemente sull’uno come sull’altro evento: un ex paracadutista della RSI salutato da “Bella ciao” e un cantautore premiato come letterato darebbero consistenti argomenti di polemica a chiunque. Ma, invece, vorrei, per una volta, smorzare le polemiche, invece che alimentarle. Dario Fo è stato un soldato della Repubblica Sociale? Fatti suoi: si trattava di scegliere, e alcuni hanno scelto la macchia, altri i gladi sul colletto. Ha cambiato idea: è diventato comunista. E con ciò? Lo stesso hanno fatto Scalfari e la Iotti, Vittorini e Calvino: un’intera Nazione, salvo pochi irriducibili da una parte dall’altra, ha fatto il salto della quaglia, prima o poi. Dicono che abbia millantato chissà quali persecuzioni, mentre, in realtà, il potere lo ha spesso vezzeggiato e carezzato: il potere è subdolo e, sovente, ti liscia perché ti teme. Infine, l’accusa più infamante: ha applaudito per l’uccisione di Ramelli, ha difeso gli assassini dei fratelli Mattei. Certo, non è una bella cosa: ma vi ricordo che, alla notizia della morte del povero Ramelli, il consiglio comunale di Milano, con qualche nobile eccezione, si è alzato in piedi ad applaudire.
Così fan tutte, chioserebbe il grande Da Ponte. Quanto al valore oggettivo dell’opera di Fo, ammesso che esista un valore oggettivo nell’arte, vi confesso di non essere in grado di giudicare: non sono mai riuscito ad andare oltre le prime due pagine delle sue pièces e giudicare un grande scrittore da qualche comparsata televisiva, da dei Caroselli o da scampoli di coccodrilli mandati in scena a reti unificate mi sembrerebbe ingeneroso. Potrei basarmi sul giudizio di qualcuno che abbia letto l’opera omnia del Maestro, o, almeno, una parte consistente della sua sterminata produzione, ma, purtroppo, non conosco nessuno con queste caratteristiche: quando domando ai miei conoscenti notizia di questo o di quel testo, invariabilmente, mi confessano di non averlo mai letto. Perfino i più attenti, i più culturalmente preparati, oso dire perfino i più politicamente coinvolti: non ce n’è uno che mi sappia illustrare le formidabili caratteristiche del teatro di Fo. Quanto alla conoscenza diretta, ci sono stato a cena una solta volta, e ho parlato tutta la sera con Catherine Rommel, purtroppo. Sicchè, mi fido della sagacia e dell’acutezza degli accademici di Svezia.
Lo stesso dicasi per Bob Dylan: certamente, non mi appare come uno dei più accreditati scrittori del secolo, tuttavia, indubbiamente, è un protagonista assoluto della cultura, a cavallo dei due millenni. Io di musica capisco poco, e dell’inglese degli americani colgo anche meno sfumature: da italiano, provincialotto, il Nobel l’avrei dato a De André, ma non sono accademico né svedese, e Faber, ahimè, ha da tempo abbandonato le miserie e i fasti di questo mondo. Di sicuro, Dylan non è un letterato in senso stretto, se non altro per quella sua abitudine di accostare alle poesie l’armonica e la chitarra. Musicalmente, dai primi album, ha fatto passi da gigante: anche solo per l’abbandono dell’ “Old boring country” a favore di generi e commistioni meno narcotici meriterebbe certamente un riconoscimento internazionale. Sulle ragioni del Nobel al menestrello di Duluth ne ho sentite di tutti i colori: dall’accostamento alla poesia omerica o a quella scaldica (si parva licet, s’intende), fino alla ridefinizione del concetto stesso di letteratura. Preferisco volare basso. Io dico che, esattamente come ogni altra onoreficenza al valore, anche il Nobel si assegna a titolo esemplare e simbolico: in altre parole, serve a mostrare alla gente la via, ha un senso educativo.
Dylan ha indicato una via che, evidentemente, collima con quella degli accademici di Svezia: non si premia il più grande scrittore dell’anno, perché i criteri per indicare questa figura sarebbero mille e tutti diversi tra loro, ma si premia un simbolo da indicare alla gente come uomo di valore. L’idea mi pare che sia quella di premiare i difensori dei deboli e degli oppressi: i libertari, i democratici, quelli che hanno inciso nella cultura progressista. Oppure scrittori vessati e perseguitati nei propri paesi d’origine, in nome delle proprie idee e della difesa della libertà. Quindi, che questa figura valorosa faccia il bersagliere o l’alpino, il poeta o il drammaturgo, il prosatore o il cantautore, poco cambia. Se, domani, la lotta per quei valori venisse incarnata, chessò, da una ballerina o da un suonatore di baghèt, il premio Nobel per la letteratura potrebbe legittimamente andare alla ballerina o al suonatore di piva. D’altronde, mica lo pagate voi, il Nobel: lo paga l’Accademia di Svezia (entra ed adora!), Saranno ben liberi di darlo a chi vogliono e per le ragioni che vogliono, o no? Insomma, tutte queste polemiche mi paiono davvero sterili, perfino per un polemico. Dylan ritirerà il suo Nobel, Fo è morto, e anch’io non mi sento troppo bene…