Un tempo, c’erano i nazionalismi: erano il modo di sentirsi vivi, di appartenere a qualcosa, degli europei del primo Novecento. Non erano soltanto questo, intendiamoci: i nazionalismi si declinavano in molti modi, dall’irredentismo di chi si sentiva parte di una Nazione cui non corrispondeva uno Stato, fino allo sciovinismo di quelli che pensavano di essere migliori degli altri, solo perché erano Tedeschi oppure Francesi o Italiani. Questa visione del mondo partorì la prima guerra mondiale, con quel che ne consegue. Finita la guerra e cicatrizzate, almeno in parte, le ferite del mondo, la cosiddetta dottrina Briand-Kellog postulò che la guerra non fosse un modo di risolvere le controversie internazionali: era il 1928, e dieci anni dopo eravamo ancora alla vigilia di un conflitto planetario. Questa volta, a determinarlo non furono i nazionalismi quanto le ideologie: partiti-stato che sacrificarono la propria popolazione sull’altare di visioni aberranti di nuovi ordini mondiali, tanto fascisti quanto comunisti. Ne uscimmo ancora più martoriati di quanto non lo fossimo stati nel 1918 e, per di più, senza avere cancellato il virus ideologico che, anzi, mantenne il mondo in uno stato di semi-guerra permanente, per decenni.
Se, grazie al cielo, questo scontro ideologico non sfociò mai in una guerra mondiale, ma, al massimo, in conflitti periferici, come nel caso della Corea o del Vietnam, tuttavia esso scatenò in Italia una piccola guerra generazionale: una stagione di ribellismi e di ribellioni che, oggi, definiamo semplicemente “Sessantotto”, ma che si protrasse a lungo, con una scia di violenze e di morti che, se pure incomparabilmente minori per numero rispetto ad una guerra tradizionale, pure segnarono profondamente l’unità nazionale e il tasso di umanità del nostro Paese. Poi, come per la fine di un incubo, anche la stagione delle ideologie si esaurì: il sogno delirante del comunismo sovietico si infranse contro la realtà dell’economia globale, costringendo i leader comunisti ad ammettere il proprio fallimento e ad avviarsi ad una progressiva regressione del totalitarismo, mentre la formidabile impostura degli opposti estremismi, un poco alla volta, smise di essere di stretta attualità, per consegnarsi alla storia.
Eppure, oggi, una parte di quest’odio, qualche scampolo di disumanità, tracce minuscole dei lager e dei gulag continuano ad esistere: il mondo democratico a qualcuno dà ancora fastidio, incredibilmente. Per questo, io giungo a sostenere che, alla luce della mia esperienza di storico e di uomo, vi sono atteggiamenti che qualcuno si ostina a definire politici e che, viceversa, sono semplicemente delle patologie: delle vere e proprie malattie mentali. Intendiamoci, gli estremismi sono sempre esistiti, nell’età moderna: io non sto parlando di posizioni estreme, sia sul versante reazionario che su quello anarco-libertario. Io parlo di una forma di demenza di quelle che necessitano di una cura specifica in regime di TSO. Perché non saprei in quale altro contesto collocare, ad esempio, l’atteggiamento di un sedicente democratico che, in nome della democrazia, pretenderebbe che avessero diritto di parola in pubblici consessi solo ed esclusivamente coloro i quali la pensino come lui o facciano pubblica dichiarazione di condividere la sua visione del mondo e della storia, se non in quello delle aberrazioni psichiche.
Eppure è capitato a me di imbattermi in questo signore, a Bergamo, nell’anno di grazia 2015. Farò un altro esempio: come catalogare quei signori che, inneggiando ad un mondo democratico ed antirazzista, interrompono una linea ferroviaria per danneggiare una manifestazione pubblica, autorizzata, di gente che non la pensa come loro, se non antidemocratici e razzisti? Razzisti ideologici, razzisti etici, ma cosa cambia, se il risultato è identico: non permettere al diverso di esprimersi? Alla faccia delle citazioni a vanvera di Voltaire e di Rousseau! Credo che si debba prendere atto che vi sono, nella nostra società, alcune frange politiche, alcune sensibilità ideologiche, che, in realtà, sono soltanto una forma molto particolare di psicosi: una malattia mentale mascherata da ideologia, insomma. Altrimenti non si spiega: qualunque cretino capirebbe che non si può difendere la libertà negandola a qualcuno e che non può esistere una democrazia oligarchica, in cui soltanto pochi e politicamente selezionati possano esprimere liberamente il proprio pensiero.
Qui non è questione di opinioni: è questione di sistema nervoso, di meccanismi mentali, di semplicissima capacità logica. La conclusione che ne traggo è che questi individui o questi gruppi di persone siano insani di mente e vadano trattati come tali: si debbano ricondurre nell’alveo della normalità sociale. Come? Bella domanda: lobotomizzarli non si può, anche se, forse, sarebbe una soluzione ottimale. Magari, circoscrivendone l’azione, isolandoli, levando loro la possibilità di nuocere. E non finanziandoli coi soldi dei cittadini, come succede a Bergamo, tanto per dire…