All’assiomatica ineluttabilità del “facta lex, inventa fraus” pare non riescano a sottrarsi neppure le sacrali direttive della Chiesa. Ne è impareggiabile attestazione il singolarmente ottemperante regime quaresimale cui nel tredicesimo secolo, secondo le cronache di Salimbene da Parma, si atteneva il Patriarca di Aquileia. Il mercoledì delle ceneri l’alto prelato usava celebrare l’avvio del percorso penitenziale facendosi imbandire un banchetto di ben quaranta portate – tutte rigorosamente di magro. L’ineffabile presule procedeva poi a depennare dal pantagruelico menù una vivanda al giorno, giungendo in tal modo a santificare la vigilia della Pasqua con una claustrale refezione consistente in un’unica pietanza.
Se lo spirito del precetto di continenza alimentare durante i tempi di espiazione risulta di inossidabile chiarezza, la lettera della regola ha invece subito profonde mutazioni nel corso del tempo. La dieta paleocristiana di magro rispondeva infatti a canoni che oggi sarebbero classificati come strettamente vegani, dato che da essa era bandito non solo ogni cibo di origine animale, ma addirittura il pesce. Il consumo di quest’ultimo – destinato a divenire indiscusso emblema della cucina quaresimale – fu consentito a partire dal VII secolo, mentre uova e latticini vennero sdoganati solo nel 1365 dal concilio di Angers. E non è troppo distante dal vero chi insinua che una delle chiavi di successo della riforma luterana fu rappresentata dalla soppressione dell’obbligo di astensione dalle carni, a quell’epoca vigente almeno per un terzo dell’anno, particolarmente inviso alle voraci popolazioni di ceppo germanico.
È dunque assodato che la suddivisione dell’anno religioso in tempi “di grasso” e “di magro” abbia dato origine a due distinti filoni alimentari, nettamente scissi per natura delle proteine e dei grassi utilizzati. Per quasi quindici secoli alla cucina della carne e del lardo si è così alternata una cucina ittica e dell’olio, con una cadenza puntualmente scandita dalle partizioni del calendario liturgico.
All’interno di questo sistema di riferimenti, desta stupore che, in una parcella di cristianità di stretta osservanza quale il distretto di Bergamo, la tradizione gastronomica locale assegni al pesce una collocazione tutto sommato marginale. Scorrendo l’esauriente ricettario bergamasco compilato da Silvia Tropea Montagnosi per le edizioni Bolis, si riscontra ad esempio che, delle 333 pietanze illustrate, soltanto una quindicina – tra le quali più d’una di evidente origine allogena – recano una chiara impronta ittica. La cucina di magro risulta semmai più compiutamente rappresentata nella gran copia di preparazioni di impianto distintamente vegetariano – dalle zuppe montane di erbe spontanee ai capù magher, da bardéle e foiade condite di soli burro e cacio alle innumerevoli declinazioni della polenta.
Eppure molteplici riscontri indicano con univocità che in più di una fase storica il pesce – e segnatamente quello d’acqua dolce – abbia rappresentato una risorsa tutt’altro che secondaria nel sistema alimentare dei nostri antenati. Già in età medioevale gli statuti della nostra città disciplinavano il commercio delle derrate ittiche con un grado di dettaglio che ne sottendeva lo status di prodotto di largo consumo. La compravendita doveva essere anzitutto tassativamente concentrata presso l’area a ciò deputata nell’antica Piazza di San Vincenzo, prospiciente il Fontanone, per consentire ai Giudici delle Vettovaglie di esercitare con sollecitudine i prescritti controlli sul rispetto delle normative sanitarie. I prezzi erano inoltre assoggettati ad un regime amministrato – denominato calmedrio – che regolava le quotazioni dei generi di prima necessità, tra cui anche grani e carni. I diritti di pesca nelle acque del contado erano infine contingentati così da assicurare al capoluogo approvvigionamenti quanto più regolari.
V’è peraltro evidenza che a quei tempi i pescatori bergamaschi stentassero a stare al passo con la sostenuta domanda urbana. Le autorità municipali dovettero quindi far a diverse riprese ricorso anche a fornitori forestieri, come attestato dal contratto con un pescatore di Olginate – tale Pietro Testori – stipulato nell’aprile del 1553. Questi si impegnava per un anno a recare in città prefissati quantitativi di pesce (trenta pesi il venerdì, quindici le vigilie delle festività di precetto e venticinque ogni giorno di qua-resima) da vendersi a tariffe convenute nell’accordo, con l’avvertenza che non si trat-tasse di pescato “di fossa, ma di buoni laghi, & Adda”.
Dalle rilevazioni del calmedrio riportate nell’Effemeride di Donato Calvi, si ricava comunque che nel XVI secolo i prezzi per unità di peso delle derrate ittiche andassero da due – per le varietà a più buon mercato quali barbi, cavedani e lucci – a tre volte – per i generi più prelibati quali trote, tinche e persici – il costo della più dispendiosa tra le carni, quella di vitello. Da ciò traspare che il pesce non fosse certo cibo per tutte le tasche: il suo consumo era semmai appannaggio dei ceti cittadini più abbienti. Nel contado ci si doveva invece contentare – si fa per dire – di gamberi, bisséte (le piccole anguille di roggia) e rane, di cui allora abbondavano i corsi d’acqua della campagna.
E siccome, a prestar fede a Gabriele Rosa, l’aristocrazia bergamasca di quell’epoca usava soggiornare assai più lungamente nei poderi in villa che nelle dimore urbane, non sorprende affatto che il pescato di fosso finì per spopolare anche nella cucina no-biliare e borghese. Su di esso fa infatti perno la seicentesca suppa quaresimata del Cocho Bergamasco, nel cui retrospettivo brodo, dalla medievaleggiante tendenza agrodolce, finiscono a mollo anche le lumache. Gamberi e rane conferiscono inoltre nerbo al fumetto dell’ottocentesca versione di magro della minestra di pasta alla bergamasca proposta dall’anonimo estensore de “Il cuoco economico moderno”, e ani-mano diverse tra le ricette che al tramonto del secolo romantico il concittadino Giuseppe Riva dedicò ai tempi di astensione dalle carni nel suo pur esterofilo “Trattato di cucina semplice”. Non ve ne sarà forse a sufficienza per cavarne un menù per il mercoledì delle ceneri degno del Patriarca di Aquileia, ma certo neppure per decreta-re che dall’associazione alla cucina di pesce del gastrotoponimo “alla bergamasca” debba giocoforza promanare l’ambiguo sentore dell’ossimoro.