Forse era inevitabile. Dopo quel che si è visto per i casi di Perugia e Avetrana, probabilmente era illusorio pensare che il teutonico contesto bergamasco potesse evitare, attorno al processo per l’omicidio di Yara, il ripetersi di protagonismi e di esibizionismi già ammannitoci in precedenza. E infatti, piano piano, insieme alla inevitabile spettacolarizzazione che innesca una vicenda così drammatica e così sentita dall’opinione pubblica, è arrivato il carico degenerato dello scontro tra opposte tifoserie giornalistiche. Una partita che non è nemmeno più, come pur sarebbe comprensibile, tra colpevolisti e innocentisti (tutti i grandi processi italiani sono stati fonte di vivaci contrapposizioni, è fisiologico), ma tra vendicatori della verità, o supposta tale, e moralisti, magari con qualche scheletro nell’armadio.
Quel che è certo è che, limitandosi a mettere a confronto le cronache delle udienze che si stanno susseguendo dentro l’angusta aula di via Borfuro (il processo assolve ad una funzione pubblica e il presidente del Tribunale dovrebbe facilitare, anziché ostacolare, il lavoro degli operatori dell’informazione), sembra di assistere a film diversi. Ci sono risposte dei testimoni che qualcuno riporta ed altri no, atti che taluno giudica fondamentali e talaltro nemmeno considera, ricostruzioni che impegnano paginate intere e altrove non meritano nemmeno mezza riga. Da lettori, non avendo la possibilità di verificare direttamente quel che avviene nel dibattimento, si rimane straniti e spiazzati. E con il sospetto, o qualcosa di più conoscendo certe umane derive della professione (nessuno ne è immune), che alle diverse interpretazioni diano un fattivo contributo fattori che poco hanno a che vedere con le regole del mestiere.
Ci sono quelli che pensano di guadagnare spazio (copie o ascolti in tv) raccontando il contrario di quel che è la narrazione maggioritaria, magari mescolando elementi veri sottovalutati colpevolmente da altri e suggestioni oniriche. Ci sono quegli altri che, abituati a frequentare il palazzo che fornisce loro spunti di lavoro quotidianamente, magari anche in modo inconsapevole attribuiscono maggiore credibilità e peso all’interlocutore consueto piuttosto che a quello che viene da fuori (e magari, come l’avvocato di Bossetti, usa toni e modi censurabili). E quegli altri ancora che scoprono improvvisamente certi cattivi usi, soprattutto televisivi ma non estranei pure alla carta stampata come quelli di pagare le cosiddette interviste esclusive, e s’ergono ad implacabili vendicatori incuranti di confondere vittima e carnefici.
Sappiamo, così scrivendo, di andare a toccare il nervo scoperto della suscettibilità della corporazione a cui apparteniamo a pieno titolo, ma ciò detto, si può provare a interrogarsi sulla piega che ha preso questa vicenda? Ci si può chiedere se la passione, diciamo così, non abbia in qualche caso sconfitto la ragione e tirato i fatti e le situazioni per la giacchetta? Si può – se si è tutti d’accordo nel ritenere che vadano rispettate le persone (presunti colpevoli e familiari sicuramente incolpevoli compresi) – provare a ritornare alle vecchie e care cronache giudiziarie? Quelle magari un po’ barbose ma inchiodate ai fatti. Quelle che hanno fatto la storia del giornalismo italiano. Le opinioni, invece, anche le più fantasiose, sono sempre lecite. E sono pure utili spesso, perché aiutano a ragionare, al di là che le si condivida o no. Ma teniamole separate dal racconto. Alla ricerca della verità bastano e avanzano i giudici. Sempre ammesso che, almeno loro, ci riescano.