Perolari: «Bisogna ridare valore 
alla formazione tecnica» 

Perolari: «Bisogna ridare valore alla formazione tecnica» 

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nella foto: Alberto e Giorgio Perolari

“Sono ottimista perché sono un imprenditore, altrimenti non continuerei a fare questo mestiere. Ma chi ci viene a raccontare che ci sono segnali di cambiamento ci prende in giro. L’Italia è ancora in gravissima difficoltà e non vediamo la luce in fondo al tunnel”. Alberto Perolari, amministratore delegato della Perofil, non ha mezzi termini per descrivere l’attuale congiuntura economica. Lo storico marchio bergamasco di biancheria maschile, che da oltre un secolo fa capo alla sua famiglia, di periodi bui ne ha vissuti molti. Eppure il crack finanziario che nel 2008 ha travolto il sistema economico mondiale sembra non avere eguali. Recenti studi dimostrano infatti che siamo tornati indietro di 13 anni in termine di creazione di ricchezza e che un simile crollo del reddito nazionale non si era mai registrato in tempo di pace da quando esiste l’unità d’Italia. Statistiche che trovano conferma nell’analisi di Perolari: “Di certo io non ho vissuto la Guerra mondiale come mio nonno, che era stato addirittura sfollato – racconta – sicuramente quelle erano situazioni inimmaginabili oggi. Tuttavia, la crisi del 2008 è stata pesantissima e ha fatto venire alla luce una serie di complessità dell’economia e della finanza mondiale che non sono ancora state assolutamente risolte”.
Quali sono i mercati più in difficoltà?
“Il mondo oggi è molto diversificato. Sono andati in recessione tutti i mercati occidentali mentre c’è una crescita importante dei Paesi emergenti: il futuro sarà proprio dei cosiddetti Brics. Per esempio, il nostro secondo mercato di sbocco è la Cina: ci ha dato grandi soddisfazioni in questi anni. Anche se, per quanto riguarda i prodotti del lusso, sta registrando un rallentamento. L’Est Europa, invece, continua una crescita interessante”.
Il consiglio che si sente di dare alle imprese bergamasche?
“Di internazionalizzare. E’ necessario investire oltre i confini nazionali perché il mercato italiano, in termini di consumi di qualunque tipo di prodotto, è ancora oggi in grande recessione. Anche la nostra azienda, così come altre importanti ditte orobiche, sta concentrando i suoi sforzi al di fuori dei nostri confini. Noi siamo presenti in Paesi dove generiamo il 40% del nostro fatturato”.
I giovani stanno pagando il prezzo più alto, con un tasso di disoccupazione allarmante. Cosa bisogna fare?
“Innanzitutto, sanare il grande scollamento che esiste tra la formazione e le esigenze del mondo del lavoro. È inutile continuare a sfornare laureati in materie umanistiche, come avvocati o psicologi, quando poi ci mancano i tecnici. Le aziende tessili bergamasche nel giro di una decina d’anni avranno sicuramente un grosso problema a reperire personale adeguatamente preparato quando andranno in pensione le risorse importanti che hanno in organico. Bisogna ricordare alle famiglie e ai ragazzi che una formazione più tecnica ha un estremo valore. Il nostro è un Paese trasformatore di materie prime con una forte connotazione industriale. Abbiamo il secondo sistema industriale d’Europa dopo la Germania quindi non possiamo puntare tutto sui servizi come hanno fatto gli inglesi. Per dare occupazione dobbiamo piuttosto avere una seria politica industriale a lungo termine”.
Quindi resiste un pregiudizio nei confronti dei lavori manuali, spesso ritenuti umili o meno qualificati?
“Forse sì. Per questo bisogna cambiare l’approccio culturale. Non è detto che rinunciare alle materie umanistiche significhi per forza dedicarsi a lavori umili. Diventare capo di un reparto produttivo, per esempio, è un mestiere che può dare grandi gratificazioni. D’altronde non possiamo sperare di diventare tutti dei piloti di Ferrari, di quelli ce ne sono solo due. E gli altri cosa fanno? Non possiamo nemmeno fare tutti la guida turistica in Città alta”.
A proposito di turismo, anche per Bergamo può diventare una carta importante?
“Sicuramente anche il turismo è decisivo e forse non ci rendiamo conto di quanto sia forte all’estero l’appeal del made in Italy. Certo, poi quando un turista arriva a Bergamo fatica a trovare un cartello in inglese che gli indichi cosa visitare. C’è ancora molto da fare per migliorare il settore turistico, ma non è questo ambito che, a mio avviso, ci fornirà le risorse per offrire nuova occupazione”.
Gli stages aziendali sono un valido strumento?
“I tirocini in azienda rappresentano un arricchimento sia per l’azienda che per lo studente. Noi, appena abbiamo la possibilità, attiviamo degli stages perché ci permettono di conoscere nuovi collaboratori e magari, terminato il tirocinio, di integrarli in azienda”.
Molti bergamaschi stanno dando vita a start up di successo. Che consiglio dà a questi giovani imprenditori?
“Apprezzo lo spirito di imprenditorialità dei nostri giovani che decidono di lanciare dei progetti nuovi. Ci vuole una mente molto aperta e una grande conoscenza dei mercati mondiali perché né l’Italia né l’Europa sono più mercati di riferimento. Piuttosto bisogna puntare su Cina, India, Usa, Brasile e Paesi dell’Est. Inoltre, le start up non devono diventare delle aziende bonsai, nel senso che il nostro Paese non è capace di fare squadra e sorgono imprese troppo individualiste. C’è bisogno invece di unire le risorse per investire. Oggi avere un ufficio di rappresentanza a Shanghai, per esempio, ha un costo che non tutti possono sostenere. Condividere certi tipi di investimenti per un obiettivo comune diventa fondamentale”.
Quanto è importante oggi puntare anche sul web?
“La rete permette di avere un filo diretto con il consumatore e di imparare qualcosa di nuovo ogni giorno. Internet è una frontiera su cui anche noi stiamo investendo da tre anni. Al momento abbiamo una persona in azienda dedicata solo al web e stiamo valutando di investire di più in quest’area con nuovo organico”.
Cosa del made in Italy è più apprezzato all’estero?
“Il nostro appeal è legato alle famose tre A: agricoltura, abbigliamento e arredamento. Il nostro patrimonio enogastronomico non ha eguali nel mondo, ma forse non siamo così bravi e organizzati nel promuoverlo. Ci vorrebbe una maggior attenzione della politica europea sul “Made in”. Il nostro è l’unico continente del mondo che non stabilisce l’obbligatorietà del marchio di fabbricazione sui capi tessili e di abbigliamento. Questo è un grande gap culturale perché il “Made in” permetterebbe al consumatore di conoscere dove è stato fabbricato il capo che sta comprando e di avere, di conseguenza, una maggior trasparenza sul processo di acquisto”.
Anche lei ripone molte aspettative nell’Expo 2015?
“È una grande vetrina per i mercati di tutto il mondo e quindi un’opportunità per il nostro Paese di farsi conoscere. Mi preoccupo quando vedo Beppe Grillo che va sul cantiere dell’Expo come se fosse il cantiere della Tav. Lo trovo molto demagogico e molto sbagliato. L’esposizione sarà invece una grande opportunità e bisogna coinvolgere i territori e i cittadini per far capire a tutti il valore di questo evento. Per esempio il Kilometro Rosso ospiterà una serie di iniziative collaterali che faranno conoscere al mondo le nostre aziende di eccellenza. Bergamo sta lavorando molto bene e si sta adoperando per fare squadra tra le varie istituzioni: questo è un punto che farà la differenza”. 

L’azienda

Dal 1910 protagonista
nel settore dell’intimo maschile

Oltre un secolo di tradizione alle spalle, ma lo sguardo sempre puntato verso il futuro. La storia della Perofil, azienda bergamasca dedicata all’intimo maschile, ha origini lontane. A raccontarla, con trasporto misto a commozione, sono i due attuali capisaldi dello stabilimento. Protagonisti dell’ultimo incontro dedicato agli imprenditori orobici organizzato all’Ateneo di Scienze lettere ed arti, il presidente Giorgio Perolari e il figlio Alberto, amministratore delegato, hanno ricordato l’eroica impresa del loro capo fondatore. Era il 1910. Con grande intraprendenza, Francesco Perolari portò avanti l’idea di produrre fazzoletti accuratamente orlati e inscatolati, mentre fino ad allora, venivano cuciti a mano dalle donne riciclando vecchie lenzuola. Così inventò il marchio Skiatore, in onore della sua passione sportiva. Nel 1932 venne costruita la sede in via Paglia, quindi tra gli anni Quaranta e Cinquanta, la tessitura e la filatura passarono in via Zanica. Qui accanto nel 1962 venne progettato un palazzo industriale adibito ai laboratori e gli uffici. Il ’68, in particolare, fu un anno rivoluzionario per l’azienda che si dedicò per la prima volta alla produzione di capi di intimo per uomo, mentre nell’80 arrivarono i pigiami. Forte di una serie di prestigiose collaborazioni, da Prada & Prada America’s Cup alla Juventus, da Helmut Lang a Ermenegildo Zegna, la Perofil continua ancora oggi a unire tradizione e innovazione promuovendo i suoi manufatti artigianali anche sul web attraverso un e-commerce di successo. Ora il presidente Giorgio Perolari ha sette nipoti, tutte femmine. L’auspicio è che almeno una di loro, in futuro, abbia voglia di assumere le redini dell’azienda per dar vita alla quinta generazione.