Uno, Marco Pagnoncelli, se n’era andato a luglio, ammaliato dalle sirene dell’ex enfant prodige della politica pugliese, quel Raffaele Fitto che, avendo come modesta ambizione di ricalcare le orme del premier inglese David Cameron, si è creato il suo partito pret à porter, Conservatori e Riformisti. L’altro, Enrico Piccinelli, da sempre uomo più tormentato del suo sodale-avversario di tanti anni in camicia azzurra, ha rotto gli indugi solo martedì, a pochi giorni dal Natale, in concomitanza con due pezzi da novanta come Sandro Bondi e Manuela Repetti (sua consorte), per andare a rimpolpare le fila parlamentari di Denis Verdini, il Gran Visir toscano già plenipotenziario di Berlusconi, inseguito da inchieste e trame oscure ma assurto a novello demiurgo delle riforme in virtù dei rapporti territorial-familiari con Luca Lotti e i giovani rampanti del cosiddetto Giglio magico.
Travolti da un insolito destino, per dirla alla Wertmuller, i due senatori eletti per miracolo nel 2013 (furono inseriti in fondo alla lista dell’allora Pdl solo per fare numero e non fecero nemmeno campagna elettorale tanto erano certi che non sarebbero mai entrati a Palazzo Madama) hanno fatto ciao ciao al partito che li ha cresciuti e pasciuti nell’ultimo ventennio. Da Forza Italia, di cui sono stati entrambi coordinatori provinciali (si sono passati il testimone), hanno avuto tutto e di più. L’uno, forte dello stretto legame con Roberto Formigoni, poi mollato appena il Celeste è caduto in disgrazia, ha cavalcato la stagione ciellina facendosi assegnare incarichi da assessore comunale a Bergamo, poi assessore regionale, quindi consigliere di amministrazione di Sea fino allo scranno vellutato di senatore. L’altro, invece, ha costantemente fatto leva sulla sponda laica del partito azzurro (in ultimo guidata da Mariastella Gelmini) e ne ha riavuto in cambio a sua volta ruoli da assessore a Palazzo Frizzoni e in Provincia, prima di sbarcare a Roma.
Una caratteristica hanno avuto in comune: entrambi, sia detto come mera osservazione da cronista, ovunque sono stati non hanno mai lasciato un segno tangibile del loro passaggio. Inevitabile per chi ha sempre preferito la politica politicante al fare, il posto al caldo allo studiare i problemi, l’ufficio extra large al marciapiede. Di che stupirsi, allora, se di fronte alla caduta massi dell’edificio berlusconiano cercano di mettersi al sicuro? In fondo, assecondano un istinto primordiale. C’è voluta tanta fatica per arrivare in alto, perché rinunciarvi? E poi: la vita mica finisce con l’esaurirsi della spinta propulsiva di Forza Italia. Dopotutto, la politica esisteva anche prima della discesa in campo del Cavaliere (quando l’uno stava nelle retrovie socialiste e l’altro nelle quinte file democristiane).
Inutile guardare all’indietro, il mondo va avanti. La coerenza, ammesso che sia mai stata un virtù, può inorgoglire solo i paracarri, quelli che non cambiano mai idea. Loro, Pagnoncelli&Piccinelli, sono due menti fini, hanno tanto ancora da dare. Poco importa se rischiano di montare su cavalli dagli scarsi garretti. Fitto e Verdini non sono che dei mezzi. Servono a guadagnar tempo, a coltivare il sogno di traghettare verso lidi che in futuro si immagina paradisiaci. Sulla carta sembra un’impresa disperata. O meglio, una manovra spudoratamente opportunistica. Ma vai a sapere. Nel paese dei trasformisti finirà che, poco poco, avranno ragione loro.