Pagnoncelli applaude Renzi, che “spettacolo” al Sociale

Pagnoncelli applaude Renzi, che “spettacolo” al Sociale

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Matteo Renzi per dare sostegno al sì al referendum costituzionale di ottobre si diverte (di conserva con la sua ministra alle Riforme che predilige i paragoni azzardati e le distinzioni capziose) a mettere alla berlina gli avversari, dipingendoli di volta in volta come gufi o rosiconi, voltagabbana o inciucisti. Chissà se guardando la platea del teatro Sociale di Città Alta, dove ha voluto tenere a battesimo la sua campagna, si sarà imbattuto nel faccione rubicondo di Marco Pagnoncelli. Sì, proprio lui: il senatore ora approdato sulla scialuppa guidata dal prode Denis Verdini ma con un passato sulla tolda del transatlantico berlusconiano. Già fedelissimo del Silvio nazionale, poi folgorato dal Celeste (alias Roberto Formigoni), macerato dai tormenti esistenzial-politici, era poi finito sulla corvetta di Raffaele Fitto.

Marco Pagnoncelli
Marco Pagnoncelli

Un’imprudenza per un riconosciuto uomo di potere come lui. E infatti, tempo pochi mesi ed eccolo confluire verso il centro di gravità permanente del Vicerè toscano dalla chioma leonina. Forse Renzi non se n’è accorto, o forse lui non si cura dei cosiddetti “de minimis”, ma un compagno di strada così (per tacere dei vari D’Anna, Barani e Falanga, autentici statisti mancati) rientra a pieno titolo, politicamente parlando s’intende, tra coloro che meritano di essere indicati al pubblico ludibrio. A qualcuno del Pd che conserva ancora un po’ di senso del pudore vedere Pagnoncelli spellarsi le mani per gli strali renziani contro gli inciucioni ha provocato gelidi brividi lungo la schiena. Ma, appunto, trattasi di pochi benpensanti che non han capito come sono gli usi della casa.

Il premier, per quanto di matrice democristiana, applica la più classica doppiezza togliattiana. Inflessibile con i difetti di avversari e oppositori interni, morbido e comprensivo con quelli dei suoi amici e della corte dei miracoli con cui ama circondarsi. Il male, o il marcio, è per definizione dall’altra parte. Di qua c’è chi vuole bene all’Italia, chi si batte per il progresso, chi vuole ridare speranza. Di là, invece, sono concentrati i peggiori: quelli che vogliono lo sfascio, che difendono le poltrone, che vorrebbero riportare il Paese all’età della pietra. Un manicheismo da asilo infantile che risulta grottesco sulla bocca di chi è stato investito del ruolo di governo e aspira a passare alla storia come un leader innovatore.

C’è da augurarsi che il presidente del Consiglio rinsavisca presto e assuma toni e contenuti più istituzionali. Ne ha solo da guadagnare.  E’ vero che si sente un piccolo (!) Napoleone con quel suo “dopo di me il diluvio”, ma se continuerà a legare la sopravvivenza sua e del suo governo all’esito positivo del referendum otterrà solo di portare sul fronte del no anche quanti sono favorevoli nel merito alle riforme ma non condividono le scelte politiche dell’esecutivo. Se fosse davvero quel politico dotato di doti sopraffine che crede di essere lo avrebbe capito da tempo. Ma forse gli sarebbe bastato anche solo consultare i libri di storia. Gli uomini solo al comando agli italiani piacciono. Con un particolare: così come ne rimangono folgorati, così se ne disamorano. E i piccoli grandi fenomeni (da Fanfani a De Mita, da Craxi a Berlusconi) lasciano il proscenio tra i fischi.