Si dice che quando il padre risparmia, i figli ringraziano, ma con certi Titoli di Stato lo faranno (forse) i nipoti. Tra le conseguenze della politica ultraespansiva della Banca Centrale europea, con tassi che oscillano intorno allo zero, quando non sono negativi, è che veramente il denaro non vale più nulla, almeno quando si cerca di investirlo. Comprare Bot a scadenze brevi ormai è un costo più che un guadagno. Così per riuscire ad avere un rendimento anche non eccezionale bisogna andare su obbligazioni dalla scadenza sempre più lunga. Da poche settimane, come già hanno fatto Spagna, Belgio e Francia, proprio per rispondere alla domanda del mercato e allo stesso tempo allungare la durata del proprio debito, anche l’Italia ha lanciato un bond a 50 anni, seppure collocato solo tra investitori istituzionali, come fondi pensione e compagnie di assicurazione: assicura un rendimento del 2,85%, mezzo punto più del titolo trentennale, Ma per ottenere questa cedola, appunto, ci si vincola per mezzo secolo. Se si porta a termine il prestito, si riavrà il capitale soltanto nel 2066. E se questo sembra un tempo assurdamente lungo, l’Austria ha appena emesso un titolo a settant’anni, che rende peraltro “solo” l’1,5%. Scadrà nel 2086, con la possibilità quindi, se lo si è comprato in età avanzata, che verrà incassato non tanto dai figli, quanto da nipoti che magari adesso non sono ancora nati.
Quale piccolo risparmiatore può essere interessato a un titolo del genere, a parte chi vuole lasciare un buon ricordo di sé alle future generazioni? Probabilmente chi vuole farsi un piccolo vitalizio. Ma sotto questo punto di vista c’è il problema dell’inflazione. L’1,5% austriaco, quando c’è l’inflazione zero, è una rendita reale ormai non disprezzabile. Soprattutto se si considera che in Italia, trent’anni fa, c’era chi correva a comprare Bot con rendimenti a due cifre ed era felice, nella sua beata ignoranza, anche se l’inflazione che cresceva a tassi superiori erodeva progressivamente il potere d’acquisto. Ma le banche centrali, compresa quella europea, dicono apertamente e chiaramente che il loro obiettivo è un’inflazione intorno al 2%. Se anche solo riuscissero a centrare il numero – spesso capita che la mano scappi e in un attimo si superi il livello – il possessore del bond austriaco a 70 anni è destinato ad avere rendimenti insufficienti a coprire la perdita legata al rincaro della vita.
Di cosa accadrà nel futuro ovviamente non si ha certezza – non si può escludere nemmeno una perenne inflazione zero – ma guardando al passato, anche se come dicono i promotori non si assicura che le performance si ripetano, si ha un’indicazione interessante di cosa avrebbe dovuto attraversare un’obbligazione austriaca a settant’anni che venisse a scadenza oggi. Innanzitutto sarebbe stata emessa nel 1946, in una Vienna ancora occupata dagli alleati e uscita sconfitta da una guerra vissuta da regione della Germania nazista. Il fiducioso obbligazionista avrebbe dovuto affrontare l’uscita da una situazione di fame diffusa, la ricostruzione, la definizione di un’organizzazione democratica, la fine dell’occupazione alleata nel 1955, la guerra fredda, il rilancio industriale e l’adesione all’Unione europea.
In Italia quello che valeva l’equivalente di 1000 euro nel 1946 adesso, per effetto dell’inflazione, di euro ne varrebbe solo una ventina in termini reali. E in settant’anni l’interesse dell’1,5% annuo (senza contare gli eventuali reinvestimenti) permette di fatto solo di poco più che raddoppiare il valore nominale. Mille euro del 1946 diventano quindi, tra rimborso del capitale e interessi accumulati negli anni, poco più di duemila euro nominali del 2016, che però equivalgono a solo una cinquantina di euro del 1946 in termini reali, come potere d’acquisto al netto dell’inflazione. Insomma, se qualcuno avesse pensato nel 1946 di costruirsi in questo modo una rendita finanziaria non avrebbe grandi risultati. Forse i prossimi settant’anni saranno migliori da questo punto di vista, ma avere dubbi è lecito.