Le scivolate dei clienti tra “Tachipirinha” e whisky “Johnnie Wayne”

Le scivolate dei clienti tra “Tachipirinha” e whisky “Johnnie Wayne”

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Guardare programmi di cucina in tv, condividere foto di piatti e giudizi on line ci ha reso fini intenditori? Sembrerebbe di no. Almeno a giudicare dagli strafalcioni, dagli errori e dalle cadute di stile dei clienti nei quali continuano a imbattersi chef, ristoratori e barman nel loro lavoro quotidiano. Peccato che non ci sia un Tripadvisor al contrario, un sito dove è chi sta dall’altro lato del menù a mettere a nudo chi frequenta i locali, altrimenti se ne sentirebbero delle belle. Ci abbiamo provato noi a mettere insieme una scherzosa “rivincita” raccogliendo gaffe, ingenuità e mancanze dei consumatori.

Come quella signora in un locale bergamasco che di fronte alla proposta di una spigola all’amo ha dichiarato con perentoria fermezza di non gradirla, ma di preferire del branzino (è lo stesso pesce, indicato con due diversi termini regionali). O la “collega” ben più raffinata che ha ordinato delle “cap santé”, inutile pronuncia francese per un antipasto di “capesante”.

cameriere-cliente-ristorante-menu-ritD’accordo, si dirà, il pesce è storia recente per i palati orobici. Ma nemmeno con la carne va meglio e così, come riferisce Diego Pavesi chef del ristorante Della Torre di Trescore Balneario, c’è chi chiede un filetto ben cotto lamentandosi poi perché è asciutto e chi non ha gradito il carpaccio «perché era crudo» (!). C’è anche poca dimestichezza con le regole della ristorazione. «Capita che per la pausa pranzo – evidenzia Pavesi – ci siano persone che ordinano alla carta, magari ognuna un piatto diverso, per poi rendersi conto di non avere abbastanza tempo per la cucina espressa». E che dire di coloro che si ritengono dei gourmet fatti e finiti? Quelli che amano provare i locali e fare classifiche? «Aderiamo al circuito trentacinqueuro.it – racconta lo chef – e talvolta, passando tra i tavoli, capita di sentire paragonare la proposta con quella del locale dove “con 20 euro ne mangi di pesce”, che la dice tutta sulla capacità di valutare la differenza di qualità delle materie prime, della preparazione e del servizio», riflette un po’ amaramente.

Che poi è anche una questione di tatto, o no, cari clienti. «Un classico – annota il patron dell’Arlecchino a Bergamo, Franco Previtali – è la telefonata per sapere se c’è posto in giornate particolari, come Ferragosto. Alla risposta che è tutto completo il commento è “ah, anche voi!”», che svela la scelta di ripiego. E poi ci sono quelli che hanno bisogno di conferme: «Pronto, è la Pizzeria Arlecchino? Fate la pizza?», è l’aneddoto preferito della figlia Francesca.

I non professionisti diventano comunque più attenti e diligenti quando si mettono alla prova in cucina. All’Accademia del Gusto di Osio Sotto ricordano ancora la signora che pulendo i porri gettava la parte bianca, anziché le foglie, e lo chef Pavesi di una persona fortemente allergica all’aglio che probabilmente aveva scelto il corso meno adatto, quello sul pesce. Ma i casi non sono così numerosi. «Anche nei corsi di pasticceria – racconta il docente Diego Mei – grandi svarioni non ce ne sono. Forse perché l’atteggiamento prevalente è quello di chi vuole imparare». Eppure un po’ l’ha spiazzato la signora che ha rifatto a casa la crema mostrata a lezione confessando che però era venuta più morbida. «Ho usato esattamente gli stessi ingredienti», ci ha tenuto a precisare. «Ma li ha pesati?». «No!», la risposta che demolisce la base stessa della pasticceria, che vuole ogni elemento esattamente bilanciato. «L’errore più frequente – evidenzia il pasticciere – è voler fare le dosi a occhio o pensare di poter sostituire un ingrediente con un altro senza compromettere il risultato, come la corsista che voleva fare una frolla con solo burro di cacao». «Un altro “peccato” – aggiunge – è badare più all’estetica che al gusto, come riuscire a fare dei macaron dal guscio liscio e ben sviluppato, ma cadere sul ripieno, che invece è la parte più importante di questo dolce». Poi è vero che ogni corso offre una galleria di tipi umani che meriterebbero un capitolo a parte. «Si va dall’impedito a quello che sa già tutto – sintetizza Mei -, ma ponendosi senza saccenteria e presentando gli argomenti in maniera semplice si riesce, alla fine, a far sentire tutti a proprio agio».

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Il campionario più vasto di stramberie e incidenti da ordinazione ce l’hanno probabilmente i baristi. Vuoi perché si è più di fretta o sovrappensiero o perché non sempre c’è il supporto della lista e si va a orecchio. Come chi chiede il whisky “Johnnie Wayne” (storpiatura con riflessi cinematografici del marchio Johnnie Walker), la birra doppio smalto o un succhiotto (lapsus?) di frutta fresca. Tutti casi raccolti da Gabriele Aresi, titolare del 30 & Lode Cafè di via Dei Caniana a Bergamo che ha anche gestito l’estivo al parco della Trucca.

Pure la caffetteria, con le sue innumerevoli varianti, è fonte di sorrisi («un caffè con latte macchiato»), richieste al limite dell’assurdo («un caffè liscio, ben caldo, in tazza ghiacciata») e situazioni spiazzanti. «Ad un signore che aveva ordinato un cappuccino – svela Aresi –, la cameriera aveva chiesto “cacao o cannella?”, mandandolo nel panico. “Perché, quello normale è finito?” la preoccupata reazione del cliente». «Come ci si comporta in questi casi? Si fa finta di nulla – dice il barman – per non rischiare di offendere, ma poi si condivide l’episodio con i colleghi e ci si scherza su».

Un’altra categoria è quella dei super esperti che proprio tali non sono. «Chi ordina un gin tonic raccomandandosi di preparalo con l’Havana 3 (che però è un rum ndr.) o chi è convinto di avere la ricetta perfetta per il Negroni. Non credo che i programmi tv abbiano reso più preparati i clienti – riflette Aresi -, anzi, probabilmente li hanno illusi di poter esprimere giudizi in libertà e di criticare».

Anche il barman e formatore Gianfranco Di Niso si è dovuto destreggiare tra nomi improbabili e richieste strampalate. «Molto frequente è sentirsi ordinare una Tachipirinha anziché una Caipirinha – afferma -, in altri casi è persino difficile capire cosa il cliente voglia e gli si fa qualche domanda per essere più sicuri». “Quel cocktail inventato a Mosca”, ad esempio, è una parafrasi diffusa, pur se inesatta, per il Moscow Mule. «L’incidente diplomatico l’ho rischiato di fronte ad una signora napoletana – confessa – che mi ha chiesto una “premuta di arancia”. Lì ho fatto davvero fatica a trattenermi dal ridere, ma è stato difficile convincere anche quell’altra signora che voleva a tutti i costi lo spritz alla spina». Neppure tra gli aspiranti professionisti mancano gli svarioni. «Inevitabilmente, durante i corsi, il pisco, brandy sudamericano, diventa “psico”», dice Di Niso, che, per riportare un po’ di equilibrio nel match tra avventori e baristi ricorda anche la scivolata di un collega. «Alla richiesta di una Pina Colada, ha passato in rassegna con attenzione tutte le bottiglie per poi uscirsene con un “Mi dispice, è finita!”».