La crisi dei consumi è strutturale. Ora serve una vera scossa

La crisi dei consumi è strutturale. Ora serve una vera scossa

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di Oscar Fusini*

Quello che era sotto gli occhi di tutti, alla fine, ha trovato conferma nei primi dati ufficiali. Almeno per i consumi, la nostra è risultata un’estate “gelata”. Ad eccezione del turismo, delle immatricolazioni automobilistiche e dei consumi fuori casa, in tutti gli altri settori le vendite hanno segnato il passo. Anche a settembre, complice il prolungato tempo estivo, gli acquisti non sono ripartiti. Secondo lo studio di Confcommercio “Nota sui consumi delle famiglie, le spese obbligate e la povertà assoluta in Italia”, diffuso ieri, nei primi sette mesi di quest’anno l’Indicatore dei consumi segnala solo un timido +0,7% rispetto al +1,2% dello stesso periodo dell’anno scorso. A questi ritmi non si può certo parlare di ripresa. Altrimenti, dopo sette anni consecutivi di perdite a doppia cifra, possiamo immaginare un recupero solo nel quarto Millennio. La situazione economica coincide con il quadro del mercato bergamasco, anch’esso profondamente colpito dalla crisi nei redditi e nell’occupazione.

fiscoIl cambiamento è avvenuto in profondità. Perché se alle continue “ripresine” seguono immancabili le fasi di stagnazione, come quella che stiamo attraversando, non si può certo definire “congiunturale” la crisi dei consumi. È, piuttosto, il frutto di un’evoluzione, ormai consolidata, della nostra società. Pertanto, servono misure concrete e di effetto che ci facciano uscire dal circuito vizioso. Servono azioni forti, ovviamente. Non è sufficiente evitare gli aumenti dell’Iva, occorre, al contrario, agire coraggiosamente sulla riduzione dell’Irpef, lasciando ai consumatori risorse da destinare ai consumi. Del resto, in un sistema ormai incapace di creare ricchezza, l’unica via per rilanciare i consumi – non smetteremo mai di sostenerlo – è quella di ridurre la spesa pubblica improduttiva e, contestualmente, abbassare le tasse, lasciando così qualche euro in più nelle tasche degli italiani. Questo non farebbe bene solo ai consumi, quindi al commercio e al numero dei suoi addetti, ma anche agli investimenti che potrebbero essere rilanciati per creare nuova ricchezza. Non sono solo i numeri a preoccuparci, ma anche le tendenze che essi esprimono. Basti pensare che l’acquisto di prodotti alimentari è sceso dal 17% al 14% della spesa pro capite in vent’anni (dal 1995 al 2015). Questo ha visibilmente impattato sia sulla spesa quotidiana sia sul carrello mensile, che è il tradizionale specchio della spesa degli italiani e dei bergamaschi.

Il cambio di abitudini ha favorito – con la crescita di due punti percentuali nella struttura della spesa – alcuni nostri comparti del terziario, come alberghi, bar e ristoranti, che, pur nell’esplosione del numero degli esercizi, hanno goduto, e godono, delle tendenze alla crescita del turismo e dei consumi fuori casa. L’incremento maggiore è stato però registrato dalle spese per le abitazioni (acquisto e affitti), oltre alle utenze (gas, luce e acqua) cresciute di oltre il 5,5%. È un’escalation che ci preoccupa. Un po’ perché nelle utenze a guadagnare è ancora lo Stato con il suo prelievo massiccio, un po’ perché queste spese incomprimibili tolgono risorse al commercio. La spesa in questi anni s’è modificata: sempre meno merci, sempre più servizi, invisibili e intangibili. I numeri parlano chiaro: gli acquisti di prodotti pesano sempre meno (dal 46% della spesa nel ‘95 al 38% nel 2015) mentre i servizi predominano. Quest’ultimi, nel processo di terziarizzazione, non sono tutti uguali e non sono cresciuti nello stesso modo.

Gli acquisti di servizi in vendita o commercializzati (bancari, assicurativi, telefonici ecc.) sono passati dal 17,4% del ‘95 al 21,3% del 2015 mentre sono addirittura esplosi quei servizi obbligati, non commercializzati e spesso erogati in regime di monopolio (in un decennio sono passati dal 36,5% 40,7% della spesa) come affitti, gas, luce elettricità e carburanti. Sebbene i prezzi di benzina e gasolio siano scesi negli ultimi due anni, hanno di fatto costituito una delle più grandi batoste dell’ultimo ventennio per le tasche dei consumatori con l’aggravio che i proventi sono finiti ai paesi produttori e alle multinazionali distributrici e non ai nostri poveri benzinai! Per non dimenticare, poi, la crescita vertiginosa del gioco d’azzardo, altro sistema che drena risorse dalle famiglie ai concessionari e allo Stato.

Un altro fenomeno analizzato dallo studio di Confcommercio è l’evoluzione della povertà assoluta nel nostro Paese, ovvero l’aumento del numero del numero di persone e famiglie che non sono più in grado di comprare un paniere di beni e servizi considerati di sussistenza. Ebbene, il numero di queste persone è raddoppiato in dieci anni. Solo nel Nord Italia le famiglie sono passate da 274mila a 613mila pari a un numero di persone povere da 588mila a 1.843.000. Quasi il 7% degli abitanti del ricco Nord Italia è in condizione di assoluta povertà! Se l’impatto sociale è devastante per i diretti interessati, chiamati ad una vita di privazioni, lo è anche per la nostra società che resta ricca e spesso sprecona. Il fenomeno è allarmante, giusto per stare in tema, anche sulla società dei consumi, perché la concentrazione della ricchezza cozza con quel sistema diffuso di crescita e distribuzione della ricchezza che ha garantito il boom economico italiano ed aumenta ancor di più la spirale “minori consumi minore economia reale” a favore di un’economia solo finanziaria.

*direttore di Ascom Confcommercio Bergamo

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