L’Italia possiede un intero universo di oggetti, opere, scorci meravigliosi: il fatto che gli Italiani siano diventati indifferenti alla bellezza è, insieme, il più assoluto paradosso, la più evidente catastrofe e il crimine contro la civiltà più sanguinoso della nostra epoca. Eppure, nessuno ne parla, nessuno cerca di rimediare e nessuno la pagherà. Ci spegneremo nella vergogna, nella bruttezza e nel silenzio, come gli eredi di un patrimonio immeritato che provenga da lontani e sconosciuti parenti. Forse, qualcuno, prima del crepuscolo, aprirà gli occhi e, come un sonnambulo che ritorni alla realtà, si domanderà: come siamo potuti arrivare a tutto questo? I grandi pensatori del Basso Impero soffrirono per le stesse, dolorosissime, certezze: la visione profetica dell’abisso che stava inghiottendo il loro mondo, e sul cui orlo etère e pretoriani, imperatori e proconsoli, danzavano spensierati, mentre, ai confini di Roma, montava la rovina definitiva. Vox clamantis in deserto: la voce di uno che grida nel deserto, questo, probabilmente, è il più fedele ritratto di quegli uomini, condannati, come Cassandra, ad inascoltati vaticini. Mirabilmente, il Vangelo descrisse quell’ inappellabile sprofondare degli dei pagani e della loro civiltà, dietro le sembianze del Battista: ma Giovanni non gridava nel deserto, e i cristiani nutrivano la fede in un’epoca nuova e migliore, che avrebbe sostituito quella degli schiavi e dei signori.
Noi, viceversa, non abbiamo nessuna fede e non possiamo ipotizzare nessuna età dell’oro, ma solo la fine. Siamo già postumi, anzi: nelle nostre scuole, in cui lo strumento prevale sull’umanità, nelle fabbriche, per le nostre strade, siamo semplicemente i relitti sbattuti sulla spiaggia dal fortunale. E ci illudiamo di essere ancora vivi: che si tratti soltanto di una crisi passeggera, determinata da qualche nodo economico da sciogliere, risolvibile con qualche rimedio omeopatico, con una tisana, un cataplasma. Ma anche il malato terminale fa progetti: perfino sul letto di morte le persone parlano dei viaggi che faranno, delle cose nuove che introdurranno nella loro immaginaria vita futura. E così noi: non altrimenti progettiamo un mondo che non sarà. Che non saremo. Vi è questa meravigliosa facoltà negli umani: una sorta di seconda coscienza, che smorza il dolore alimentando false speranze. Invece, guardiamo negli occhi la sorte di questo Paese: noi cesseremo di esistere, come entità statale e, soprattutto, come comunità umana. I fili che ci legano gli uni agli altri sono già esilissimi: quasi miracolosamente sopravvissuti agli eventi. Come Stato, abbiamo perso quelle che sono le più evidenti prerogative statali: tanto per cominciare, le istituzioni sono percepite e, spesso, sono di fatto, il primo nemico della gente comune. Dal vigile urbano che scrive verbali di contravvenzione, fino ai giudici della Consulta, tutti coloro che rappresentano la giustizia, in senso latissimo, sono visti dal cittadino come nemici occhiuti ed avidi, da cui guardarsi: mai come difensori o come riferimenti.
Lo stesso dicasi per il fisco, che, anziché significare un’equa ridistribuzione delle risorse economiche, è ormai soltanto un inghiottitoio, in cui ogni stilla di sangue della società precipita, ad alimentare ignoti e, sovente, tenebrosi fiumi carsici. E potremmo proseguire all’infinito: scuole che non insegnano, sindacati che non sindacano, accademie di nessuna scienza, religiosi privi di religiosità. Questa la percezione. Il vero dramma, però, è che chi sta ai vertici è convinto, nella presunzione tipica di chi comanda senza nessuna investitura e senza nessun merito, che questa percezione pertenga al popolino, alla sesquiplebe: loro, gli illuminati, sanno, vedono la luce fuori dal tunnel, conoscono l’Eden cui ci stanno conducendo le loro scelte scellerate. E, invece, il popolino questa volta ha visto giusto: sono loro, i soloni dei dicasteri, delle sovrintendenze, dei provveditorati, ad avere le palpebre cucite. Ubriachi di parole ridondanti, circondati di ciarlatani e di abbindolatori, alonati della loro gloria da quattro soldi, fatta di privilegi, di auto lampeggianti, di ossequi e d’inchini, coloro che dovrebbero guidare l’Italia alle resurrezione sono, in realtà, gli ultimi esecutori di un destino feroce: i carnefici, stupidi ed inconsapevoli, di una civiltà. Questa è la verità: noi moriremo di stupidità. Non per una guerra che ci concluda, in un unico formidabile lampo. Nemmeno per meticciati che ci disperdano in mille lingue e mille colori. Solo per la nostra incommentabile stupidità, che si rivela nella suprema scempiaggine di chi ci comanda e nella ancor peggiore passività pecoresca di chi obbedisce, senza nemmeno domandarsi più il perché. Eppure, fuori di noi c’è quell’universo incredibilmente bello che i nostri padri hanno saputo creare e che non vediamo più: non ne cogliamo il messaggio né ne vediamo le potenzialità. Forse, semplicemente perché non ne siamo più degni.