Il baratto tra occupazione e tasse e la figuraccia della Apple

Il baratto tra occupazione e tasse e la figuraccia della Apple

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Tim Cook
Tim Cook

Tredici sono i miliardi di euro che, secondo la Ue, Apple deve versare per tasse non pagate all’Irlanda (che, per inciso, in maniera incomprensibile non li vorrebbe anche se rappresenterebbero per Dublino alcuni anni di manovra). Per fare un confronto, sono in tutto quindici i miliardi che secondo il ministero dell’Economia, l’Agenzia delle Entrate dovrà incassare nel prossimo triennio dall’evasione secondo la convenzione 2016-2018 presentata nei giorni scorsi. Visti in proporzione non è ben chiaro quale sia la somma più clamorosa (e quindi lo “scandalo” maggiore), dato che da una parte c’è la più grande azienda del mondo che attraverso un accordo con uno Stato (però non del tutto sovrano su questa materia) ha cercato una scappatoia per non pagare le tasse in Europa e dall’altro c’è l’importo obiettivo di ben tre anni di lotta all’evasione nei confronti di tutte le aziende attive in Italia. Dove peraltro a dicembre era stato raggiunto un accordo proprio con Apple, che di fronte alla contestazione per tasse eluse dal 2008 spostando formalmente i ricavi in Irlanda, aveva ottenuto l’impegno di pagare 318 milioni di euro. L’intesa all’epoca era stata vista da altri Paesi con invidia e ammirazione, ma forse a questo punto è stato effettuato al ribasso, all’insegna del “pochi, maledetti e subito”. In quei 13-15 miliardi così diversi e così uguali che accomunano Irlanda e Italia c’è però un altro elemento di similitudine nella giustificazione. L’autoriduzione delle tasse, nel caso di Apple dietro un paravento almeno all’apparenza più legale rispetto alla plateale evasione fiscale, viene presentata come una necessità per dare lavoro.

L’Istat alla fine del 2015 aveva stimato in 206 miliardi, quasi il 13% del Pil nazionale, il valore dell’economia sommersa e illegale (dove rientrano sottodichiarazioni e lavoro nero, ma anche droga, prostituzione, contrabbando e altre attività non lecite), con oltre 3,5 milioni di “lavoratori” irregolari. Tutte persone che non è chiaro se siano già contate nelle rilevazioni sulla disoccupazione, come è probabile, o che se, in un’ipotetica scomparsa dell’economia sommersa, gonfierebbero ulteriormente le liste del collocamento. Di sicuro la presenza del “nero” altera le statistiche sul lavoro, non è invece certo, come alcuni ventilano, che sia grazie al “sommerso” che la disoccupazione viene contenuta, riconoscendo indirettamente all’illegalità un immotivato valore sociale. La stessa deformazione che si sente ripetere nella scusa dell’imprenditore pizzicato: non riuscivo ad andare avanti con tutte quelle tasse. Da qui il sillogismo che per lavorare e dar lavoro l’evasione è una necessità. E quasi sempre si trova il mass media compiacente o poco pensante che avalla il ragionamento, senza considerare le conseguenze: o tutte le aziende per dare lavoro devono evadere il fisco – e allora l’obiettivo dei 15 miliardi da recuperare in tre anni è ridicolo – oppure ci sono aziende che riescono a creare occupazione in maniera regolare e che quindi subiscono concorrenza sleale, con il rischio di essere messe fuori mercato dalle imprese disoneste che giustificano con la necessità di dovere evadere le eccessive tasse la loro incapacità di gestione o almeno la maggior brama di profitto. Se questo resta ingiustificabile, ma può essere comprensibile, in attività di piccolo cabotaggio, è paradossale che il tema del baratto tra occupazione e tasse basse o nulle venga posto da Apple, colosso dell’innovazione che di queste scorciatoie non dovrebbe avere bisogno. Eppure è quello che ha fatto Tim Cook, reagendo in maniera isterica e ventilando la perdita di posti di lavoro e il ritiro degli investimenti in Europa. Il vero mistero però è l’Irlanda che a questo punto avrebbe barattato la rinuncia a 13 miliardi di euro con i 5.500 posti che Apple ha nel Paese: in pratica due milioni e mezzo per occupato. Non proprio un grande affare. E che anche Apple poteva in fondo risparmiarsi, evitando con la rinuncia a un po’ di utili (i profitti netti del suo solo ultimo anno fiscale hanno superato i 53 miliardi di dollari) di perdere la faccia.

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