Da qualche mese il sindaco di Bergamo Giorgio Gori mostra un insolito attivismo. Abbandonato il low profile dell’inizio mandato, quando prudentemente si è dedicato allo studio dei principali dossier ereditati dal predecessore Tentorio, piano piano, ma in maniera sempre più decisa ed evidente, ha preso da un lato ad intessere rapporti al di fuori della città (per esempio con i sindaci di Brescia e Mantova) e dall’altro ad intervenire pubblicamente su temi di carattere politico o comunque non strettamente legati al suo ruolo di amministratore comunale. Al punto da far sorgere la spontanea domanda: allora sono vere le voci che lo danno interessato a candidarsi alla presidenza della Regione nel 2018, quando terminerà il primo mandato di Roberto Maroni?
Se si dovesse dare retta a quel che si dice negli ambienti del Pd la risposta è scontata: certo che sì. Sul cammino ci sarebbero, sulla carta, due possibili concorrenti. Anzitutto, l’attuale segretario regionale del Pd, Alessandro Alfieri, e poi, il miglior fico del bigoncio piddino orobico, il ministro Maurizio Martina. Ma il primo, pur persona seria ed impegnata, non ha esattamente il carisma del trascinatore di folle, mentre per il secondo, ormai lanciato come leader nazionale della corrente interna “Sinistra è cambiamento” (versione riveduta e corretta dei pontieri di democristiana memoria), un ruolo regionale rischierebbe di apparire un declassamento.
Per Gori, insomma, la strada potrebbe rivelarsi, se non spianata, almeno un pochino in discesa.
E tuttavia, ci sono almeno un paio di nodi da sciogliere. Il primo chiama in causa l’impegno che l’ex produttore tv ha preso con i cittadini che nel 2014 lo hanno eletto perché guidasse per cinque anni (almeno) Bergamo. Se davvero si dovesse candidare alle Regionali, il sindaco sarebbe costretto a dimettersi con un anno di anticipo (così fecero l’ultima volta Silvana Saita a Seriate e Roberto Anelli ad Alzano). Non sarebbe proprio un bel gesto, diciamo così. Intanto perché lascerebbe a metà il lavoro iniziato e in secondo luogo perché finirebbe con il legittimare i maliziosi sospetti di chi, e non sono pochi, ha sempre pensato che per Gori, vista svanire la candidatura a parlamentare alle primarie, l’impegno a Palazzo Frizzoni è stato solo un ripiego (affrontato con la massima serietà, sia chiaro) in attesa di traguardi migliori.
Resta poi da verificare, in seconda battuta, se il sindaco abbia la stoffa per ambire al Pirellone. La risposta, sulla carta, è senz’altro positiva, perché l’uomo è intelligente, preparato, dotato di determinazione e capacità di intessere relazioni con i mondi che contano, oltre ad una consolidata maestria nel gestire la comunicazione. Ma il suo attivismo degli ultimi mesi ha anche messo in luce una certa “impoliticità'” che in un contesto regionale rischia di rivelarsi un handicap. Alcune uscite, come quella sulla proposta di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini o l’ultima che lo ha visto bacchettare polemicamente le categorie economiche per la loro supposta incapacità a marciare d’amore e d’accordo, non gli hanno fatto guadagnare consensi. Nel primo caso si è esposto senza peritarsi di informare almeno il proprio partito, nel secondo si è reso protagonista di una invasione di campo con toni che hanno provocato reazioni risentite.
Nulla di clamoroso, intendiamoci. Possono essere semplici incidenti di percorso. Ma sarebbe sbagliato sottovalutarli. La politica non s’improvvisa. Come dimostrano illustri esempi, aver avuto successo in altri campi non conferisce automaticamente la patente per guidare qualsiasi mezzo. Forse andrebbe sfruttata meglio, e fino in fondo, l’esperienza a Palazzo Frizzoni. Imboccare scorciatoie a volte permette di raggiungere l’obiettivo in anticipo. Ma qualche volta si finisce fuori strada.