Come volevasi dimostrare: il presidente della Regione Roberto Maroni non ha alcuna intenzione di andare a trattare con il Governo maggiori spazi di autonomia e, cogliendo al volo un pretesto, si è lanciato a corpo morto verso il referendum. Un’operazione propagandistica, dal costo tutt’altro che trascurabile per le casse pubbliche (30 milioni), alla quale l’estate scorsa si erano incautamente accodati il presidente della Provincia Matteo Rossi e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Proprio quest’ultimo negli ultimi giorni ha alzato il tiro nei confronti del governatore lombardo, accusato (seppur non in termini così espliciti) di mala fede. Alla buon’ora, verrebbe da dire, visto che questo epilogo era ampiamente prevedibile, come risulta evidente da un commento sul tema pubblicato su La Rassegna il 3 settembre scorso.
Per Maroni, come per la Lega, il tema dell’autonomia è una bandiera da sventolare davanti agli occhi dei gonzi che si ostinano a volerci credere. E’ demagogia allo stato puro, altrimenti tanti anni al governo, sia nazionale che regionale, avrebbero prodotto ben altri risultati. E invece, dal federalismo alla macroregione passando per la devolution, è stato tutto un unico, colossale, bluff.
Come abbia potuto il Pd accodarsi all’iniziativa maroniana è uno di quei segni che mostrano il livello sottoterra della classe dirigente del partito che al momento ha l’onore-onere di guidare il Paese. Anche in casa nostra c’è di che riflettere. Meglio, il sindaco Gori ha di che riflettere perché questo passo falso sul referendum (anche se la sua colpa è di aver assecondato Rossi più che di aver preso l’iniziativa) fa il paio con l’altra battuta a vuoto accusata quando è uscito pubblicamente, senza concordare la posizione con il partito e la stessa maggioranza, per bocciare la richiesta di revoca della cittadinanza onoraria concessa nel 1924 a Benito Mussolini.
Non basta certo per tranciare giudizi, ma si ha come l’impressione, o forse qualcosa in più, che a Gori si attagli più la dimensione amministrativa che quella politica. Sul primo piano, anche chi non ha mai nascosto le sue riserve non può non osservare che la Giunta sta mettendo sul tavolo una serie di progetti (alcuni ereditati, altri di iniziativa in parte privata) destinati a lasciare un segno profondo sulla Bergamo del futuro: recupero e rilancio di ex Montelungo ed ex Riuniti, ristrutturazione del Donizetti, vendita dello stadio, nuovo palaghiaccio, il parcheggio all’ex gasometro. Se davvero riuscirà ad avviare (o realizzare) questi interventi, Gori potrà a pieno titolo considerarsi meritevole della fiducia che i bergamaschi gli hanno tributato. Le premesse ci sono, i soldi in buona parte anche (e qui c’è anche un po’ di fortuna perché proprio ora si stanno allentando i vincoli di bilancio). Ora si tratta di dar corpo al suo rinomato pragmatismo manageriale.
Forse, a questo fine, gli converrebbe lasciar perdere il movimentismo politico che l’ha tarantolato negli ultimi mesi. C’è chi dice che l’uomo è ambizioso e che fatica a vestire solo i panni del sindaco. Può darsi. Ma visto che è ancora relativamente giovane, specie sul piano politico, sarebbe saggio se si dedicasse anima e corpo alla sua città. Quella è la sfida che ha lanciato un anno e mezzo fa, su quella si deve concentrare, lasciando da parte la politica politicante. Questa la lasci pure a chi, per darsi un ruolo che non ha, riveste con i panni del “patto costituente” un volgare inciucio mirato solo a gestire il potere e a spartire poltrone.