Il fondo Atlante, un nome che indica bene lo sforzo che si propone di sostenere, è bene che ci sia, ma è soprattutto strano che sia arrivato così tardi. A prima vista sembra un progetto paradossale. Perché le banche italiane, che tutte, chi più chi meno, hanno già per loro conto sofferenze, ovvero prestiti che difficilmente rientreranno, per un totale complessivo di 200 miliardi lordi, dovrebbero mettersi a comprare le sofferenze degli altri? I critici, anche tra le stesse banche che in certi casi obtorto collo hanno dovuto accondiscendere alla partecipazione al fondo, sostengono che in questo modo, per salvare istituti decotti, si mettono a rischio anche gli istituti sani. Del resto, in sintesi, il fondo Atlante non è che una sorta di consorzio che per sostenere il sistema creditizio ed evitare che il crac di una banca abbia un effetto domino sulle altre si propone di comprare i crediti complessi degli istituti in difficoltà e sostenerli patrimonialmente in caso di necessità di aumenti di capitale che il mercato non è disposto a sottoscrivere. Eppure quello che da un lato sembra solo un salvataggio visto dall’altra parte è anche un’opportunità di business. Del resto c’è chi dell’acquisto dei crediti in sofferenza ha fatto il suo profittevole mestiere e non sembra un caso che al fondo Atlante si sia decisi di arrivare quando alcuni fondi internazionali si sono fatti avanti per rilevare Carige (il fondo Apollo) e la Popolare di Vicenza (il fondo Fortress) puntando proprio ai loro prestiti incagliati.
Del resto Fortress, fondo quotato a Wall Street, aveva annunciato nell’estate di due anni fa che avrebbe puntato un miliardo di euro per investire sui crediti in sofferenza delle banche italiane, desiderose di alleggerire le posizioni anche per rientrare nei limiti patrimoniali previsti dalla vigilanza. In questa ottica, infatti, tutti gli istituti, negli ultimi anni, hanno ceduto prestiti non performanti (i cosiddetti “non performing loans”), cioè fidi che i debitori non riescono più a rimborsare. Un servizio che ovviamente viene pagato: nel caso delle quattro banche salvate a novembre (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), ad esempio, il valore di cessione delle sofferenze è stato portato ad una media del 22,3% del valore nominale, data da una media ponderata tra il 31% assegnato alla porzione garantita da ipoteca e il 7,3% a quella chirografaria, senza garanzie. Ma ogni credito è una storia a sé. Un conto è il pagherò di un pizzicagnolo e un altro è quello di un mutuo su un immobile assistito da un’ipoteca. Ma è anche un conto un’ipoteca su un palazzo in via Montenapoleone e un altro su un appartamento in un condominio di Zingonia destinato alla demolizione. Quindi si tratta di andare a vedere, caso per caso, cosa c’è nel lotto e, con arte un po’ da antiquario e molto da rigattiere, trovare le pepite in mezzo al ciarpame senza valore.
Chi acquista in blocco pagando una frazione del valore nominale, può fare grandi profitti se riesce a farsi rimborsare dai creditori più di quella frazione o a valorizzare in maniera superiore ad esempio gli immobili che ottiene dall’ipoteca. E’ un lavoro da specialisti che richiede tempo – aiuterà molto l’annunciato decreto che prevede lo snellimento della procedura e la velocizzazione del recupero crediti – e anche le mani libere nel trattare il creditore che non sempre le banche hanno. Ma è redditizio tanto che secondo quanto stimato da Alessandro Rivera, a capo della direzione “Sistema bancario e finanziario” del Tesoro, il fondo Atlante potrebbe avere un rendimento del 6-7%. E questo nonostante le spinte perché l’acquisto dei non performance loans non ai prezzi di mercato, come potrebbe essere il 22,3% adottato per le quattro banche, ma vicino ai prezzi di libro (cioè al valore nominale detratti gli ammortamenti che mediamente sono intorno al 50%), in modo più favorevole agli istituti che li cedono, riducendo così anche la quota di potenziale recupero e di profitto per l’acquirente. Solo l’annuncio dell’arrivo di Atlante peraltro ha già portato ad un aumento dei prezzi di cessione dei Npl, a conferma che forse prima il business era sbilanciato a favore degli acquirenti. Del resto l’Abi stima che le sofferenze bancarie nette, quindi considerata la parte già spesata in bilancio, ammontino a 83 miliardi, quindi ci si avvicina al 40%, sempre come media (che è comunque quasi il doppio della valorizzazione adottato per le quattro banche), a fronte dei 200 miliardi di sofferenze lorde. C’è quindi margine da spartire tra minori profitti per l’acquirente e minore perdita per le banche che vendono: ma l’interesse per l’operazione resta.
Anche dagli aumenti di capitale, il secondo pilastro degli interventi di Atlante, che sarà probabilmente quello più importante, è possibile un ritorno nonostante l’intervento sia di ultima istanza di fronte al fatto che nessuno vi vuole partecipare. Il primo intervento di Atlante sarà con ogni probabilità l’investimento di una cifra vicina all’impegno massimo di un miliardo e mezzo nell’operazione di aumento di capitale iperdiluitivo che dovrebbe finire per dare al Fondo stesso il controllo della Popolare di Vicenza. Un istituto che viene valutato attualmente solo 10 milioni di euro, cioè una frazione del solo patrimonio tangibile, e dove i margini di recupero sono molto ampi. L’operazione Atlante quindi dovrebbe combinare salvataggi e business (con i rischi d’impresa del caso). Per quanto ci possano essere perplessità – a partire tra l’altro dalla capacità di intervenire con un patrimonio nel complesso contenuto (le adesioni hanno superato i 4 miliardi, ma tra Vicenza e Veneto Banca sono in arrivo aumenti che potenzialmente potrebbero richiedere l’intervento del Fondo per più di metà di quella cifra) di fronte a una montagna di 200 miliardi di sofferenze – c’è anche da dire che è bene considerare un’opportunità quella che in fondo era una strada senza alternativa.