Che con il trasferimento dell’ospedale la zona non sarebbe più stata come prima dal punto di vista commerciale lo si poteva facilmente prevedere. Ciò che ha lasciato spiazzati i negozianti sono stati l’accelerazione dei tempi – che loro chiamano «fretta» – e il venir meno, una dopo l’altra, delle ipotesi di destinazione dell’area, che oggi, dopo che anche l’ultima asta per l’acquisto è andata deserta, non è altro che un grande punto di domanda nella mappa della città. Colpite al cuore sono le attività più vicine all’ingresso, quelle che fornivano pressoché esclusivamente servizio agli utenti e al personale dell’ospedale, il panificio, i bar per un caffè veloce, la colazione o la pausa pranzo e l’edicola, che effettuava anche la distribuzione nei reparti. Qualcuno ha già abbassato la serranda, se non in maniera definitiva almeno per decidere quale strada prendere. Tutti sono sconfortati e delusi, anche perché contavano di poter proseguire il loro lavoro nella nuova struttura.
Risalendo via Statuto, le botteghe sono un po’ più animate e si scopre una parte della città in cui i negozi tradizionali hanno resistito meglio che altrove – certo grazie alla presenza dell’ospedale – e le attività sono passate dai padri ai figli, salvaguardando l’esperienza e i rapporti con i clienti. La desertificazione commerciale che ha intaccato altre zone di Bergamo o l’omologazione delle insegne qui non c’è. Ma la mancanza di passaggio e soprattutto di prospettive è una minaccia. Operatori e residenti leggono le recenti chiusure come un triste presagio, per questo chiedono che il quartiere non venga dimenticato, che il rischio di degrado sia affrontato subito perché già oggi, quando si fa sera, «la zona è morta».
«È con un filo di voce – recita il cartello a fianco della serranda abbassata del panificio Tresoldi – che Vi comunichiamo che questo negozio, speriamo solo temporaneamente, abbasserà le serrande da lunedì 20 maggio fino a data da decidersi». «Purtroppo – prosegue la scritta – la situazione post trasloco degli Ospedali Riuniti in congiuntura con un evidente calo dei consumi generalizzato non è più, per noi, economicamente sostenibile. Sperando di avervi reso un buon servizio in questi sette anni e nell’attesa che la Città (in tutte le sue parti) decida e prenda coraggio per affrontare il destino del quartiere senza gli Ospedali vogliamo salutarVi con un abbraccio e un arrivederci». Poco più in là, il grande bancone del Bar Luis è desolatamente vuoto e pure all’edicola c’è gran calma. I titolari delle due attività non vogliono “metterci la faccia” e sono amareggiati perché contavano di dare continuità al proprio lavoro trasferendosi all’interno del nuovo ospedale: «Le condizioni per l’accesso erano insostenibili – rilevano -, eppure sarebbe stato giusto dare un’opportunità a chi per anni ha fornito servizi alla struttura. Al momento non vediamo nessuno spiraglio: il trasferimento dell’anagrafe del Comune non ha portato nessun movimento». Il Gino’s Bar si è preso invece due settimane di ferie, i proprietari stanno infatti avviando un nuovo locale e valuteranno tra qualche tempo se continuare l’attività anche in via Statuto, dove le situazione «è – dicono – un vero disastro». Serranda abbassata pure allo Statuto Cafè, proprio fuori dall’ex Cups, che ora ospita i servizi demografici del Comune: «Il lavoro è calato del 90% – dice senza mezzi termini Rosita Poloni, titolare dell’attività da due anni e mezzo -. Ora abbiamo chiuso e stiamo vagliando alcune soluzioni. Il fatto è che il trasferimento ci ha preso alla sprovvista, i ritardi erano continui e si parlava anche del 2017 come data di apertura del nuovo ospedale. E poi perché affidare tutti i servizi di somministrazione e ristorazione ad un unico soggetto?».
Meno drammatica la visione di Thomas Mansi del ristorante pizzeria Novecento, che è anche albergo: «Il calo naturalmente c’è – rileva –, soprattutto all’ora di pranzo e delle presenze in hotel, scese del 20-25%, ma possiamo contare su una clientela consolidata in trent’anni di attività e questo ci fa andare avanti, anche se abbiamo dovuto tagliare sul personale. Il problema maggiore è che con l’addio dell’ospedale la zona si è spenta la sera, qualcuno ci dice che ha quasi paura ad uscire perché non c’è più nessun locale aperto». «Si sapeva – ammette Mansi – che prima o poi l’ospedale se ne sarebbe andato, ma si confidava, visto che la realizzazione di quello nuovo era legata anche alla vendita dei Riuniti, che, prima del trasferimento, l’area avrebbe già avuto una nuova destinazione, cosa che avrebbe permesso ad ognuno di fare con cognizione di causa le proprie scelte imprenditoriali».
«La piazza continua ad essere ben fornita di negozi», rileva Roberto Busca, dell’ortofrutta De Lorenzi aperto dai suoceri nel ’48, nel piccolo slargo all’incrocio con via XXIV maggio. «Il calo, dal nostro punto di vista, è dovuto più alla crisi che al trasferimento dell’ospedale. Abbiamo una clientela di vecchia data e, anzi, c’è chi si ferma più volentieri ora che trova parcheggio». Di diverso avviso Enrica Boni, una cliente che abita nel quartiere: «Sta decadendo – dice -, hanno chiuso la cartoleria in via XXIV maggio e la pizzeria, sono calati gli autobus, abbiamo meno servizi, non c’è nemmeno il collegamento con il nuovo ospedale. La sera ci si sente meno sicuri e i controlli non sono aumentati. Siamo preoccupati e cominciamo a temere che gli immobili perderanno valore. Il campus universitario sarebbe stato l’ideale – afferma -, ma qualcosa bisogna fare perché di questo passo si va solo peggiorando».
«Manca il passaggio – rileva Simona Aldegani, socia nel negozio di famiglia Abbigliamento Candida, che ha festeggiato il mezzo secolo di attività -, quindi abbiamo perso una parte di attività, ma i clienti che ci conoscono tornano e continuiamo a lavorare con chi viene alla clinica San Francesco. Anche la crisi si fa sentire, resistiamo perché abbiamo una conduzione familiare e proponiamo articoli, soprattutto quelli che servono per il ricovero, a prezzi contenuti. Per ora siamo in attesa di sapere cosa ne sarà della zona, ma non possiamo certo aspettare anni e anni, come accade in queste situazioni».
«Qui fino ad ora la crisi si è sentita meno», nota Paolo Conti che con la sorella Marcella gestisce l’omonimo negozio di casalinghi in via XXIV maggio, aperto dal 1964. «La presenza dell’ospedale – ammette – è stata una sorta di “doping” per le attività. Con il trasferimento abbiamo perso i clienti occasionali, al momento riusciamo reggere perché la gestione è familiare, ma il rischio è che la zona si ritrovi presto isolata, ai margini, se non ci sono nuovi motivi di attrazione. Si cominciano a vedere serrande abbassate e sono brutti segnali, i locali lasciati liberi dal Pooglia’s, ad esempio, sono sfitti da un po’, anche il cartolaio ha chiuso e pure lo Tsunami. La speranza è che una soluzione arrivi al più presto, gradita anche ai residenti che chiedono spazi per l’aggregazione, la cultura e il tempo libero».
«Non è che chi andava in ospedale si fermava subito a comprare le scarpe – dice Mario Agazzi della calzoleria vicina -, però vedeva le nostre vetrine, conosceva la nostra offerta e se trovava qualcosa di interessante tornava. È così che ci siamo costruiti la clientela. Non credo che lo spostamento avrà effetti immediati, ma sul lungo periodo, non potendo più contare sulla pubblicità assicurata dal passaggio, forse qualcuno cambierà strada e si dimenticherà di noi». Classe 1982, ha rilevato insieme alla sorella Marì all’inizio dell’anno l’attività dei genitori, aperto nel ’64. «Puntiamo soprattutto sul servizio – racconta Mario -, sin da piccolo aiutavo papà nelle riparazioni ed oggi le eseguo io. Ormai i negozi di scarpe sono tutti uguali, a noi invece interessa soprattutto il rapporto con i clienti».
Sulla sicurezza si sofferma invece Gilda Donizetti del bar tabacchi su via Statuto: «Non c’è più l’ospedale – evidenzia –, ma venditori abusivi e accattoni sono rimasti, si sono spostati qui e importunano costantemente i clienti. Sarà perché c’è meno gente in giro o perché, effettivamente, l’area libera ha attirato senzatetto e mendicanti, ma si vedono sempre più spesso facce poco rassicuranti». «Risentiamo più della crisi generale che del minore passaggio» raccontano Carla Barbieri e la figlia Valeria Mazzoleni della salumeria aperta nel ’66 da Carlo Mazzoleni. «Dipendenti dell’ospedale che si servivano da noi tornano ancora per alcune nostre specialità che non trovano nei supermercati e abbiamo sempre lavorato più che altro con parenti dei malati e utenti della clinica San Francesco, che ci sembra di questi tempi abbia anche incrementato l’attività».