Il mercato non ha sempre ragione. Come si interviene con le norme Antitrust per difendere il supremo interesse per la concorrenza, dato che il mercato per sua natura tenderebbe ad eliminare per arrivare alle distorsioni del monopolio, qualcosa servirebbe anche a difesa dell’occupazione.
Con la concezione sempre più diffusa nelle aziende che quello del lavoro sia un costo da comprimere, esattamente come quello delle altre materie prime, e quindi, con un’estremizzazione, tendenzialmente da ridurre fino all’azzeramento, si mettono a rischio alcuni fondamenti del nostro sistema socioeconomico. La nostra società è basata sui consumi e, nell’impossibilità che tutti siano imprenditori, il costo del lavoro visto, dall’altra parte, rappresenta anche la capacità di acquisto. La difficoltà di avere un reddito fisso, sempre perché essere lavoratore autonomo non è per tutti, complica inoltre la possibilità dei giovani di essere indipendenti e magari crearsi una famiglia, per un più equilibrato demografico. E analogamente la tenuta del sistema previdenziale, ben lontano dall’essere contributivo, è messa a dura prova dal fatto che si riducono le entrate da parte dei lavoratori in attività, mentre aumentano le uscite per le pensioni.
Trovare una soluzione non è facile perché l’interesse collettivo verso la piena occupazione si scontra con la necessità delle singole aziende di essere maggiormente competitive sui costi, incluso quello del lavoro. Qualcosa da un punto di vista politico si può fare: ad esempio rendere sempre più neutra, se non agevolata (ma in maniera strutturale), dal punto di vista fiscale, la componente occupazionale. Ma prima di tutto sarebbe necessaria una condivisione sociale sul fatto che l’intervento sul personale sia considerato come l’ultima opzione, dopo che sono state tentate le altre strade. Cosa che invece non avviene, sia perché il mercato finanziario – nel caso delle aziende quotate in Borsa – generalmente apprezza queste operazioni, sia per la “facilità” di tagliare certi costi rispetto ad altri.
Emblematico è il caso del piano industriale delle Poste, che prevede una riduzione di 22.500 posti entro il 2019, parzialmente compensato da 1.600 assunzioni all’anno, che porterà in ogni caso a un organico in calo da 145 mila a 131 mila persone. Il risultato di tutto questo in realtà non è tanto una riduzione dei costi quanto un loro non aumento dato che alla fine gli oneri del personale, con 14 mila persone in meno, passerebbero dagli attuali 6,2 miliardi a 6,1 miliardi nel 2020. Ma ne vale la pena? Non c’erano altri strumenti per arrivare a questo risultato?