«Dieci anni di esperienza non valgono più nulla»

operatrice sanitariaQualche giorno fa mi sono presentato per sostenere un colloquio di lavoro presso una casa di riposo privata; la selezione riguardava una posizione aperta per un addetto all’assistenza anziani; caratteristiche richieste: l’attestato professionale di Operatore socio sanitario e almeno due anni di esperienza. Al colloquio eravamo in dieci, poi tra una selezione e l’altra, siamo diventati cinque e alla fine siamo rimasti in due. Io, che vanto un’esperienza di dieci anni nell’assistenza dei malati, cominciata presso un ospedale in Africa e proseguita in America Latina prima di tornare in Italia e poi e un altro candidato, con tre anni di esperienza. Alla fine, con mia grande sorpresa, non sono stata scelta. Quando poi ho cercato di capire cosa avesse portato a preferire un’esperienza triennale a scapito di una decennale, mi è stato risposto che la maggior parte della mia esperienza, pur significativa, era stata maturata prima del conseguimento del titolo di studio e che quindi qualcuno avrebbe potuto storcere il naso. Morale: le conoscenze che ho appreso in anni sul campo, non sono state considerate “degne di nota”. Cos’altro si può aggiungere? Che mercato del lavoro è diventato il nostro? Sono demoralizzata”

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  Maria – Seriate

 

Abituati da anni ad un tipo di formazione “ufficiale”, la maggior parte degli addetti ai lavori dà ancora poca importanza alle “competenze informali”, ovvero a quelle abilità e conoscenze che l’individuo acquisisce attraverso l’apprendimento sul campo, cioè all’interno di ambiti come il contesto lavorativo o attraverso l’interazione quotidiana tra le persone (in cui rientrano l’apprendimento delle norme comportamentali e culturali e quello delle lingue); la stessa situazione accade per quelle conoscenze ottenute al di fuori dei sistemi di istruzione formale, come la partecipazione a corsi, workshop o seminari, che non sfociano in una qualifica o in un diploma, ma che sono ugualmente significative e foriere di valore aggiunto per la professionalità individuale. Ma è vero, sono ancora in troppi a non conoscere il mondo delle competenze informali e a considerarle conoscenze di serie B. Sicuramente la necessità di sviluppare metodologie per la valutazione delle competenze acquisite fuori dai contesti tradizionali, è avvertita in tutta Europa: il riconoscimento delle competenze informali, può facilitare il ri‐collocamento delle persone all’interno del mercato del lavoro lungo tutto l’arco della vita e non è una cosa da poco. L’apprendimento non ufficiale avviene regolarmente nella vita quotidiana e nell’ambiente di lavoro, perché si caratterizza come esito intrinsecamente connesso al prendere parte a situazioni in cui si è coinvolti e di cui si riconosce il senso. I contenuti di questo apprendimento non sono sistematici né organizzati, anzi caratteristica fondamentale è che il sapere è connesso ad azioni finalizzate e alla soluzione di problemi; ma non per questo non devono essere considerati validi. Il tema quindi della valutazione delle competenze acquisite “in situazione”, è quanto mai attuale (o almeno dovrebbe esserlo) e continuare a negare la loro esistenza è uno dei più grandi errori che si possa fare. In passato sono state avviate diverse sperimentazioni per far si che il riconoscimento delle competenze informali diventasse una prassi consolidata e riconosciuta, introducendo anche nuovi strumenti come il Libretto Formativo, un documento funzionale a tracciare le competenze e renderle visibili e spendibili sul mercato del lavoro. Ma la strada è ancora lunga, perché è necessaria un’omogeneizzazione delle procedure sulla base di dispositivi regionali, che dovranno essere normati, condivisi ed accessibili. Per ora il riconoscimento di tale competenze è lasciato all’intelligenza dell’individuo e al desiderio personale di “andare oltre” per scoprire le potenzialità del lavoratore che si ha di fronte, che andrebbe sempre considerato e valutato come “risorsa umana” e non solo come un mero compendio di titoli accademici.

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