Corsa alle dimissioni, la grande crisi per le imprese del turismo e della ristorazione

Corsa alle dimissioni, la grande crisi per le imprese del turismo e della ristorazione

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Non c’entrano solo orari e stipendi, ma pesa sempre di più il benessere percepito sul lavoro, oltre al rapporto con il titolare (che vale il 50% delle rinunce lavorative)

Il fenomeno delle grandi dimissioni, Great resignation o big quit come lo chiamano gli americani, dopo il boom degli Stati Uniti nel 2021 (47,7 milioni di dimissioni volontarie contro i 68,8 milioni di cessazione di rapporti di lavoro) ha raggiunto anche l’Europa e sta scuotendo dall’anno scorso anche il nostro Paese e in via trasversale tutti i settori economici che lo compongono. Questo nuovo modo di intendere e concepire la vita per i lavoratori che cercano prima di tutto benessere e conciliabilità dei propri interessi sta trovando la “vittima sacrificale” nei settori del terziario: il commercio, ma soprattutto il turismo e la ristorazione, stanno pagato il dazio più alto.

Accanto infatti ai tanti fattori che spiegano il fenomeno delle grandi dimissioni in senso generale, ce ne sono alcuni particolari che riguardano esclusivamente i settori del terziario. In primo luogo il settore è costituito quasi esclusivamente da micro e piccole imprese per lo più a conduzione familiare dove la possibilità di proporre una carriera è molto bassa. Una volta, chi lavorava in questo settore lo faceva per imparare un mestiere e aprire la propria attività, ma oggi quella proiezione di lungo termine sembra essere fantascienza per la maggioranza dei giovani.

Le imprese del settore turistico pressate dalle difficoltà finanziarie della pandemia e da quelle economiche della riduzione dei margini per la concorrenza dei grandi player (dalle prenotazioni con le OTA nella ricettività, del delivery con le piattaforme nella ristorazione) e da una concorrenza esasperata non hanno margini per accrescere le condizioni economiche dei lavoratori.

Inoltre, da almeno vent’anni è cambiata la percezione dello status, ossia quel modo di pensare collettivo che faceva preferire il lavoro in negozio, al bar e al ristorante alla fabbrica (così come nei cinquant’anni precedenti il lavoro in fabbrica era lo sbocco moderno per chi scappava dalla alla campagna). Il pensiero di dover lavorare il sabato e la domenica e nei giorni in cui gli altri si divertono è il deterrente peggiore per cercare un posto di lavoro nel terziario. La stessa professione di chef, fino a dieci anni fa di grande impatto mediatico, non sembra più rientrare tra i fenomeni alla moda.

E’ proprio il settore dei pubblici esercizi e dei ristoranti, dove l’età media dei lavoratori è mediamente tra la più bassa, a fare le spese di questa disaffezione per professioni un tempo decisamente più ambite. Complice anche il crollo demografico, nella provincia di Bergamo stimiamo la carenza di circa 6.000 addetti, pari al 22% rispetto a gli occupati (5.200 titolari, familiari e soci e circa 22.000 dipendenti – fonte FIPE). Molte imprese quindi decidono di ridurre i turni, aumentare i giorni di chiusura e limitare le sale per mancanza di personale. Ciò accade nonostante il settore impieghi molto frequentemente, con  il lavoro a chiamata, gli studenti universitari, che in questo modo cercano di sostenere le loro piccole spese e allo stesso tempo formarsi e crescere, oltre a rapportarsi con gli altri, testando e migliorando le proprie qualità relazionali.

Tutti questi fattori negativi e convergenti, dal calo demografico alla ricerca di tempo libero e svago, stanno creando una seria difficoltà al commercio e al turismo e rischiano di inchiodare uno dei settori in crescita nel nostro Paese. Ma cosa fare? Quale compito abbiamo?

Difficile individuare soluzioni valide a priori se non la ricerca a ogni livello di una maggiore capacità di attrazione del personale, di ingaggio, ossia di costruzione della relazione, la cura del benessere del lavoratore e la gratificazione.

Le direzioni delle risorse umane delle grandi imprese sono già da tempo al lavoro per migliorare la relazione con i dipendenti: welfare, premi aziendali, smart working, formazione e possibilità (teorica) di fare carriera. Tutto quanto sembrerebbe, se non alieno, almeno lontano nella stragrande maggioranza delle piccole aziende del commercio e del turismo. Eppure nelle realtà più piccole il punto di partenza cruciale per il cambiamento è proprio la consapevolezza del datore di lavoro. Se lo stile direttivo e la contrapposizione tra titolari e collaboratori non esistono più da anni, nella stragrande maggioranza delle imprese serve comunque un perfezionamento dello stile collaborativo e un grande cambio di passo nella comprensione del cambiamento e nell’accettazione delle esigenze nuove, non certo dei capricci, dei collaboratori.

Se il cambiamento è abbracciato dal datore di lavoro, allora la capacità di reazione della piccola imprese è certamente superiore a quella delle medie e grandi imprese perché nelle prime il titolare è a contatto diretto e lavora- spesso gomito a gomito- con i suoi dipendenti.

Non è però solo una questione di velocità, ma anche di possibilità concrete di accontentare i lavoratori. Nelle grandi aziende, le direzioni del personale sono lontane dai dipendenti e le eccezioni nel trattamento dei collaboratori sono spesso impossibili da stabilire quando i dipendenti sono molti da gestire, mentre il piccolo imprenditore può attuarle con più flessibilità, gestendo ad esempio un turno migliore per la mamma che ha figli più piccoli o per la ragazza che è iscritta a un corso in palestra in palestra. In questo si può tradurre la maggiore attenzione alle esigenze e il contrasto al malessere dei collaboratori, che resta la principale ragioni delle dimissioni.

Tutti noi, a ogni livello, preferiremmo che il mondo del lavoro fosse quello di trent’anni fa, ma così non è e non potrebbe nemmeno esserlo. Serve quindi la flessibilità delle regole, che non significa non lavorare, ma che siano adeguate al cambiamento dei tempi e non rigide come le leggi scritte sulla sacre tavole. Infine servirebbe una gestione oculata dei turni di lavoro che eviti carichi massacranti per gli addetti, perché di persone disponibili a sacrificarsi in tutto per il lavoro ce ne saranno sempre meno.

Le ricerche su questi argomenti convergono nel sostenere che una lettera di dimissione su due non dipenda da fattori economici. Se su questi ultimi ciascun imprenditore deve poter fare i conti con le proprie tasche, sulle altre voci dipende solo da lui e senza spendere di più per trattenere il personale.