Il mio esercizio di guardare alla Bergamo che vorrei fra 10 anni non si svolge in campo architettonico o urbanistico, perché non ne sono capace, ma si applica a quel delicato rapporto che unisce l’economia alla politica. Fortissima nella prima, Bergamo è del tutto carente nel secondo ambito, come dimostra il deficit di rappresentanza di cui ormai da molto tempo soffriamo. C’è una forte asimmetria nella nostra città e nella nostra provincia fra le risorse dedicate all’economia e quelle orientate alla politica. E non parlo certo delle risorse economiche, ma soprattutto di quelle umane, del tempo e delle energie che i bergamaschi dedicano a queste due sfere della società. Quando usciamo dai nostri confini, ci accorgiamo che i nostri connazionali, come gli stranieri che interagiscono con noi, vedono quanto siamo intraprendenti, bravi nella produzione di beni e servizi, e non colgono tanti altri aspetti non meno importanti. Per esempio, la nostra valenza culturale è del tutto sottostimata, forse perché appannata dalla visione di un territorio fatto solo di capannoni e fabbrichette, di torni e di telai. Però i nostri pilastri culturali sono ignorati o noti solo agli specialisti di singoli settori: l’arte classica e quella moderna, il cinema, la scienza, le eccellenze gastronomiche e tanto altro. Diventare la Capitale europea della cultura nel 2019 ci aiuterà. Allo stesso modo, Bergamo è vista come praticamente assente o solo marginalmente presente nella dimensione politica, e qui purtroppo la percezione corrisponde alla realtà.
Che cosa manca allora? L’elaborazione culturale di un pensiero capace di guidare l’azione dei politici, a tutti i livelli amministrativi da quello locale, su su fino a quello nazionale e addirittura europeo. Perché non dobbiamo dimenticare che il primato bergamasco nell’economia, pur magari temporaneamente appannato dalla crisi, è un primato culturale. So che molti, soprattutto a sinistra, non riconoscono al momento produttivo una vera e propria valenza culturale e anzi ritengono un po’ grezzo e limitato chi si sente votato a realizzarsi in un’impresa (in senso aziendale), ma non è così. L’eccellenza produttiva di un territorio è espressione di molti saperi: il saper fare, il saper organizzare, il saper gestire le persone, la capacità di mettersi in relazione con mondi anche lontani per collocare i prodotti e servizi e tanto altro ancora. Ciò che difetta a questa cultura, eccellente nella dimensione privata, è la capacità di completarsi in quella pubblica. Dobbiamo riconoscere di avere profuso le migliori energie nella costruzione di realtà di grande pregio in campo imprenditoriale, professionale e manageriale, ma non abbiamo offerto altrettanto nel campo della gestione della cosa pubblica. Bergamo ha delegato la gestione della politica ad altri soggetti, ad altre espressioni territoriali, e quindi culturali, che non riflettono quello spirito operoso e produttivo che pervade il tessuto sociale. Questa delega non ci ha giovato perché ha portato alla guida del Paese sensibilità e culture diverse dalla nostra che non hanno certo favorito il percorso di crescita economica e di liberalizzazione del sistema produttivo e sociale. È così che è proliferata dannosamente l’ingerenza dello Stato considerato come una fonte di risorse per rispondere a qualunque richiesta, anche la più bizzarra, dei cittadini; non uno Stato regolatore dei rapporti fra i cittadini ma ente superiore destinatario di tutte le loro istanze e generosamente incline a soddisfarle imponendo tasse e ricorrendo al debito (cioè alle tasse future); non uno Stato collaborativo, al servizio della generazione della ricchezza, ma preoccupato solo di contenere le esternalità negative della produzione (cioè gli effetti dannosi), così da essere percepito, non a torto, più come un avversario che un alleato dell’iniziativa privata. Questa, diviene la mammella da mungere e, peggio ancora, i suoi spazi di libertà, e quelli degli individui, si restringono drammaticamente.
Ecco perché sogno che Bergamo sappia conquistare una leadership politica capace di riorientare i comportamenti di chi ha responsabilità di governo, ai diversi livelli in cui si declina, verso il servizio ai cittadini, verso la collaborazione con chi crea ricchezza, verso il rispetto degli individui e della loro libertà, anche quando questa si esprime nella dimensione economica. Bergamo ha anche eccellenze nel campo sociale e della solidarietà, e la capacità di conciliare questi profili dell’operare umano non può rimanere patrimonio esclusivo ed occulto dei bergamaschi.
Il punto non è tanto e solo nelle persone che si adoperano in politica, perché in fondo anche questa è una delega. Serve qualcosa a monte di questo: un movimento di idee che affermi i valori fondamentali della nostra terra e li proietti su livelli più ampi per farli diventare i principi guida delle nostre comunità locali e nazionale. Sono profondamente convinto che l’Italia non sarebbe nella difficile condizione in cui si trova se avessimo imposto come paradigma della politica nazionale il nostro modello di rigore, operosità e rispetto delle libertà di ciascuno, temperato dalla solidarietà. È importante esportarlo come e più del manufatti e dei servizi, e il veicolo è la politica. Non è poi un sogno così irrealizzabile, se è vero che nei decenni passati la nostra città coltivava importanti luoghi di elaborazione cultura e politica che proponevano proprio questi valori. Una delle persone che li animavano, e che avrebbe voluto rilanciarli, era l’avvocato Mario Caffi, recentemente scomparso. Ma tante altre risorse restano e voglio credere che si mobiliteranno per ribaltare le sorti altrimenti infauste del nostro Paese.
Mario Comana
*Ordinario di Economia degli Intermediari finanziari LUISS Guido Carli, Roma