Da un punto di vista etnografico, le festività di fine anno rappresentano una profonda stratificazione di usi e credenze tra le quali, a ben vedere, quelle apportate dalla cristianità costituiscono una patina piuttosto superficiale. In passato i mesi più freddi erano un tempo di profonde inquietudini e di timori ancestrali, dominato dall’apprensione che l’indebolimento dell’attività solare imbaldanzisse gli spiriti dell’oscurità e dell’oltretomba. Il solstizio di inverno, in prossimità del quale la Chiesa ha calcolatamente collocato la festività del Natale, segnava il punto di svolta di questo ciclico avvicendamento di forze benefiche e malefiche, di cui l’umanità doveva propiziare il positivo epilogo tramite gli strumenti prescritti dal culto.
All’interno di questo quadro, le pratiche alimentari legate alle ricorrenze di fine dicembre hanno assunto un profondo valore simbolico, legato da un lato al tema del culto dei defunti, che per la loro collocazione in grembo alla terra erano eletti a custodi delle sementi sparse negli arativi, e dall’altro a quello della corroborazione, con un afflato per lo più sacrificale, dell’universale ripresa della fertilità dopo gli aspri rigori dell’inverno. Più che di un’antica cucina del Natale, acquista dunque significato parlare di una sequenza coordinata di gesti gastronomici che in passato dal cuore dell’autunno aveva sviluppo sino all’inizio del nuovo anno.
Due erano i motivi di spicco che si alternavano in seno a questo ciclo culinario, cui oggi si stenterebbe ad assegnare alcuna connotazione natalizia. Da un canto aveva distinzione una cucina dei semi – cereali e legumi – intimamente connessa alla devozione per i trapassati. A questa si intercalava la cucina del porco, al quale numerose culture del passato – dal microcosmo Greco-Romano a quello germanico-scandinavo – associavano strettamente la nozione di fecondità.
Lungo la prima linea ha risalto la zuppa di ceci e tempia di maiale che la tradizione milanese lega al giorno dei morti, la cui chiara ispirazione pagana trae evidenza dalla stridente trasgressione della regola di magro, ma anche l’antichissima minestra di grani mangiativi che Antonio Tiraboschi rammenta si consumasse a Bergamo a fine anno. Il maiale è ancor oggi incontrastato primattore sulle tavole natalizie dei paesi baltici e della Transilvania, ma non sorprende che la testa lessata del suino venga servita il 25 dicembre sulle mense della bassa veronese, o che per la medesima ricorrenza nella marca trevigiana tra i bolliti con la pearà spicchi l’osso magòn (ossocollo). E neppure nella Bergamo ottocentesca del Tiraboschi poteva passare inosservato il florilegio di salumi da pentola – da prosciutti e zampetti a salsicciotti e cotechini – che nell’ultima decade dell’anno guarniva vetrine e scaffali delle botteghe cittadine.