Banche, l’onda ribassista e le possibili sorprese in assemblea

a-ubi.jpgIn sei mesi Ubi ha praticamente dimezzato il suo valore in Borsa e da inizio anno la quotazione è scesa di circa un terzo, tornando ai livelli (3,808 euro) dell’aumento di capitale di cinque anni fa e a un valore che è quasi la metà del valore del diritto di recesso stabilito in occasione della trasformazione in Spa. Non è nemmeno la performance peggiore di un settore bancario in generale caduta, all’interno di una Borsa comunque in calo anche per fattori internazionali, dalla discesa del prezzo del petrolio al rallentamento economico non solo in Cina. Non ci sono motivi concreti che indichino un peggioramento della salute delle banche tale da portare a un crollo così repentino. La Borsa però vive anche, e a volte soprattutto, di aspettative e di sensazioni che portano a rialzi immotivati come a ribassi irrazionali. Questo non vuol dire che sia in atto un complotto contro le banche italiane o contro l’Italia in generale. Preoccupazioni reali di fondo esistono e caso mai si tratta di riuscire a capire quanto siano state amplificate.

Il motivo principale è quello delle sofferenze bancarie, le perdite legate ai prestiti che non vengono restituiti, oltre 200 miliardi di euro nell’intero sistema bancario, mediamente già svalutate in bilancio per il 60%, ma con 80 miliardi di euro ancora da gestire. Si è aggiunto il timore che dopo i quattro istituti commissariati (Etruria, Marche, Carife e Carichieti) che con il loro salvataggio a novembre hanno scatenato i dubbi sul settore, altri si possano aggiungere, portando a cascata ulteriori costi alle altre banche. E più recentemente è esplosa anche l’insofferenza del mercato sulla incertezza delle aggregazioni, una questione che interessa in particolare le Popolari e quindi Ubi, per il suo ruolo riconosciuto di potenziale aggregatore. Non si vedono infatti all’orizzonte fusioni dalle prospettive chiare e lineari che diano certezza di successo. Tutte sono operazioni problematiche con diversa gradualità e per vari motivi, tanto che l’impressione è che alla fine piuttosto che procedere a un cattivo matrimonio, almeno per chi non è obbligato dai conti, sia meglio restare single. Il mercato vede con preoccupazione, ad esempio, che la solidità patrimoniale di alcuni istituti, e tra questi c’è Ubi a tutto diritto, possa diluirsi o addirittura scomparire dall’unione con istituti più deboli. Ma resta anche perplesso sulla possibilità che possa derivare un istituto più solido dall’unione di due debolezze ed è altrettanto preoccupato che non si trovi soluzione per le banche dall’equilibrio fragile. Il consolidamento degli istituti è infatti visto come una necessità e i ritardi nella sua realizzazione li paga l’intero sistema bancario, che ha già sborsato più di 3 miliardi per tenere in piedi i quattro istituti

La tempesta borsistica, inoltre, si è scatenata nel periodo di limbo che precede la comunicazione dei dati societari, attesi nei prossimi giorni, che dovrebbero dare un aggiornamento, e auspicabilmente tranquillizzare, sulla solidità degli istituti, riguardo a struttura patrimoniale, salute dei prestiti, loro copertura, accantonamenti e, non ultimo, redditività e prospettive di dividendo, elementi che in Borsa hanno sempre la loro importanza.  L’incertezza accentua tutte le tendenze e anche la scarsa trasparenza sull’effettivo andamento dei famosi “colloqui di tutti con tutti” contribuisce a rendere poco chiara la situazione, alimentando la volatilità. Per le Popolari c’è poi l’ulteriore incertezza legata alla riforma, che dal punto di vista temporale, si sta rivelando improvvida. La trasformazione in Spa non ha al momento portato ad alcuna aggregazione come era negli auspici dei promotori della normativa, ma ha anzi aperto altri fronti di instabilità, con la possibilità di cambiamenti delle maggioranze e quindi della gestione.

Tutte queste tensioni si scaricano sulle quotazioni di Borsa, con prospettive tra l’altro di grande complessità per quegli istituti, Veneto Banca e Popolare di Vicenza, che in Piazza Affari stanno per sbarcare, non per obbligo della riforma, ma come logica conseguenza. E non è totalmente vero che una banca sia totalmente indifferente dalle quotazioni di Borsa. Facendo il caso eclatante del Monte dei Paschi, che proprio nei giorni scorsi ha presentato il suo primo bilancio in utile dopo cinque anni, quello che conta per la sua solidità è la patrimonializzazione netta concreta di quasi 10 miliardi, non che il mercato gli riconosca un valore, in termini di capitalizzazione di Borsa, di appena uno e mezzo. La bassa capitalizzazione non incide sulla gestione ordinaria, ma può avere però implicazioni importanti in operazioni straordinarie, dall’equilibrio tra le parti nelle aggregazioni di cui tanto si parla, al successo di eventuali aumenti di capitale che potrebbero essere necessari per la questione delle sofferenze, fino allo stesso assetto interno, perché con un investimento non astronomico neanche per la finanza nazionale, dove molti imprenditori si trovano con grande liquidità dopo avere ceduto le loro azienda, si possono creare pacchetti in grado di determinare il controllo di un istituto. Tanto per fare dei numeri, il 5% di Ubi adesso lo si compra con 170 milioni, il 5% del Banco o della Popolare di Milano con 150,il 5% della Bper per 110: il 5% di Montepaschi per 80 milioni (quando un anno fa ce ne volevano 400). Il 5% di Carige poco più di 20. Non si può escludere che ci sia chi è interessato al ribassismo per poter comprare domani a un prezzo inferiore a quello di ieri e magari presentarsi con posizioni forti al cambio dei vertici in assemblee demoralizzate per il calo delle quotazioni.