I progetti educativi nelle scuole e la sfida del pane a filiera locale sono valsi all’Aspan il premio per le buone prassi di responsabilità sociale assegnato da Unioncamere Lombardia. Nella foto il presidente Roberto Capello con l’attestato per la propria azienda
Non nasconde che il calo di consumi c’è e che anche i panifici ne risentono, ma alla parola “crisi” preferisce assegnare il significato più letterale, quello di scelta, di necessità di un cambiamento, «di riassestarsi su un nuovo modo di stare sul mercato e proporsi al consumatore». È perciò una visione di prospettiva quella che Roberto Capello, presidente dell’Aspan di Bergamo – nonché presidente regionale e vicepresidente nazionale dei panificatori – lancia ai colleghi alla vigilia dell’assemblea provinciale, in programma domenica 5 maggio a partire dalle 10.30 alla scuola della Fondazione Istituto Sordomuti, in via Reich 49 a Torre Boldone.
In cosa consiste questo cambiamento?
«Oggi il consumatore è più critico, in un prodotto cerca dei valori, non solo legati al prodotto stesso ma a tutto ciò che sta dietro, che si tratti di materie prime, rispetto ambientale o attenzione alle persone. È quella che si chiama responsabilità sociale di un’impresa, ossia l’interesse non al business fine a se stesso ma alle conseguenze del business».
Non sono concetti un po’ troppo “alti”? Le difficoltà economiche sembra che abbiano, al contrario, accentuato l’attenzione sul prezzo, lasciando in secondo piano tutto il resto…
«Invece no, le minori disponibilità hanno contribuito semmai a far crescere il senso critico nei confronti di ciò che si consuma. Ne abbiamo la conferma dall’operazione “Bergamo, la mia terra, il suo pane”, che ha messo a disposizione dei fornai farina di grano tenero coltivato sul territorio provinciale. Circa 60 panifici hanno deciso di utilizzarla in maniera sistematica: non hanno cambiato il prezzo del pane, ma hanno riscontrato aumenti di fatturato perché il consumatore ha dato valore a fattori come la riduzione dell’importazione e dell’impatto ambientale e la creazione di ricchezza per il territorio».
Il prezzo, dunque, non conta?
«Se vogliamo essere sinceri, il prezzo del pane è troppo basso. Può sembrare una provocazione, ma non è così. Tenendo conto di tutti i costi di produzione, il pane bianco classico dovrebbe essere venduto a non meno di 5.50 euro al chilo. Il prezzo si mantiene più basso perché l’imprenditore tende a non considerare l’incidenza del proprio lavoro e di quello della propria famiglia, diciamo che in Italia le piccole aziende famigliari, che costituiscono il grosso del settore, si sobbarcano parte dei costi».
Non sembra un bel messaggio da lanciare all’opinione pubblica, proprio in momenti come questi…
«Può invece servire a fare qualche conto e a comprendere che il pane non può più essere considerato “l’alimento del popolo” e che il dibattito sul prezzo deve essere inquadrato negli attuali stili di consumo. Un pane pesa circa 60 grammi che, al costo “provocatorio” di 5.50 euro, significa 33 centesimi. In Lombardia il consumo medio è tra 120 e 150 grammi pro capite, si spenderebbe cioè tra i 66 e gli 82 centesimi, meno che per un caffè e l’equivalente di qualche messaggio sms. Ciò che non va è probabilmente l’indicazione del prezzo al chilo. Viste le quantità in gioco, oggi darebbe meglio il senso della spesa indicare il costo del singolo pezzo, come avviene in altri paesi europei».
Ma c’è la crisi…
«Nonostante le difficoltà, il pane non è tornato ad essere l’alimento con cui ci si riempie la pancia. E non tornerà ad esserlo. La nostra è una società dell’eccesso e chi produce non può pensare che i consumi alimentari cresceranno, semmai il contrario. Ci sarà però sempre posto per “l’essenziale di qualità”, ossia quel prodotto in cui il consumatore riconosce dei valori, di cui parlavamo all’inizio. È un po’ il percorso che ha già intrapreso il vino».
Ci può fare qualche esempio concreto di questi valori?
«L’Aspan in questi anni di spunti ne ha forniti. Pensiamo ai progetti educativi nelle scuole e alla sfida del pane a filiera locale, che sono valsi all’associazione il premio per le buone prassi di responsabilità sociale assegnato da Unioncamere Lombardia. Anche la riduzione del contenuto di sale nel pane ha un grande significato. A Bergamo ha raccolto l’adesione dell’80% delle aziende e in Lombardia siamo al 60%, tanto che l’iniziativa è oggi studiata da Olanda e Portogallo. Diminuire la dose di sale, si è visto, migliora il gusto, ma non fa aumentare il consumo di pane, la cosa importante è il messaggio positivo lanciato, il fatto che si diffonde l’attenzione all’uso del sale in ogni momento di consumo. È un elemento al quale i clienti danno peso: preferiscono mangiare meno, ma vogliono qualità, valori ed emozioni e li vanno a cercare».
Come sono stati recepiti questi indirizzi dai panificatori?
«Posso dire che chi ha fatto precise scelte di campo sta avendo meno problemi di fronte al calo dei consumi. Gli altri facciano come credono…».
Polemico? C’è chi non condivide il percorso dell’Associazione?
«È abbastanza logico che in tempi difficili ci si chieda se valga la pena pagare la quota associativa e quanto effettivamente sia utile far parte di un’organizzazione di categoria. A questi dubbi rispondo dicendo che oggi l’associazione non è più solo un partner per i servizi, ma una realtà che mette a disposizione leve di competitività. E vado oltre: offre anche opportunità al cliente per una migliore qualità della vita, come dimostrano i progetti sul grano locale e la riduzione del contenuto di sale. Più in generale, il consumatore sa che dietro un’azienda associata c’è una struttura che lo segue, lo informa tempestivamente (è accaduto ad esempio tempo fa nel caso di una raccomandazione sanitaria dell’Asl), lo supporta. Io stesso, le rare volte che vado in vacanza, scelgo sempre realtà iscritte ad un’associazione di categoria perché so che hanno qualcosa in più».
Dai servizi alle imprese al benessere della collettività, non avete alzato un po’ troppo il tiro?
«La cosa preoccupante è che stiamo surrogando la politica. Gli indirizzi, le strategie, gli strumenti dovrebbero arrivare dai politici, che invece non sono nemmeno in grado di prendere decisioni. Non dimentichiamo però che la responsabilità sociale non è solo un bel concetto, serve al bilancio – cioè al portafoglio – delle aziende perché porta a considerare l’economia energetica, la qualità delle relazioni industriali, il rapporto col territorio, insomma è un’opportunità per crescere».
Tornando in negozio, da tempo l’Aspan sostiene la necessità di una produzione più vicina alle esigenze dei consumatori, a cominciare dai tempi delle sfornate. A che punto siamo con questa evoluzione?
«L’aumento del numero delle donne nel settore, in particolare nella produzione, fotografato dall’Ente Bilaterale regionale, è la testimonianza che la produzione si sta sempre più distribuendo lungo la giornata, perché una donna non lascerà mai i figli nel cuore della notte per andare a lavorare. Quello del panettiere che comincia alle due è ormai uno stereotipo superato. E meno male. Lo spostamento del lavoro in orario diurno e l’aumento della componente femminile saranno la nostra salvezza. Sono le donne, infatti, che, occupandosi delle spese per la famiglia, hanno la visione dalla parte del consumatore. Hanno capito, ad esempio, che ormai il pasto principale è quello della sera e perciò non serve che tutto il pane sia già pronto al mattino. All’ora di pranzo, invece, si mangia sempre più spesso qualcosa di veloce fuori casa e questo è un segmento che i panifici si sono lasciati sfuggire e devono tornare a coprire. Se è vero, infatti, che il consumo di pane si è ridotto, dobbiamo capire in cosa si è “trasformato” quel pane. Sicuramente in pizze, focacce, ma anche in pancarrè e pagnotte da affettare: perché non possiamo essere noi a produrli?».
Una recente indagine ha detto che in Italia mancano 6mila pizzaioli, ci sono carenze anche nella panificazione?
«Non è la manodopera che manca, ma persone con competenze globali, capaci cioè di curare la produzione ma anche la commercializzazione, che sappiano cogliere i cambiamenti in atto negli stili, nei tempi e nei gusti. In Lombardia quanto a formazione e ricambio generazionale, possiamo contare su 26 tra corsi e scuole e su una grande valorizzazione dell’apprendistato. In Bergamasca i corsi sono tre, oltre a quello in carcere. In particolare, nella nuova scuola che ha preso il via quest’anno a Castel Rozzone, l’Aspan ha voluto investire direttamente fornendo le attrezzature del laboratorio e i docenti, fornai in attività che portano in aula la visione del mercato aggiornata cinque minuti prima in negozio. È un impegno, ma è così che possiamo costruirci il futuro, quelle forze lavorative che domani porteranno avanti le nostre aziende».
Lo scorso 13 febbraio è stato rinnovato il contratto nazionale di lavoro, cosa c’è di nuovo?
«La Lombardia è riuscita a portarsi a casa la possibilità di contrattualizzare a livello regionale aspetti sui quali in altri territori non è possibile intervenire. Su tutti la ridefinizione del mansionario. Definizioni come impastatore, infornatore oggi non hanno più senso, le tecnologie danno una grande mano e sono nate nuove figure professionali. Anche il ruolo della cassiera era fermo al 1965 quando i registratori di cassa c’erano sì e no. L’azione sindacale è fondamentale per riuscire a realizzare in concreto quel panificio moderno di cui abbiamo parlato. Perché vanno bene le ipotesi di lavoro, ma poi occorrono gli strumenti. Noi abbiamo sappiamo cosa ci serve, per questo abbiamo le idee chiare su cosa chiedere ai contratti».
Anche sulla bilateralità sono stati fatti passi avanti…
«In Lombardia è partita nel maggio del 2011 ed offre un livello molto avanzato di tutele a lavoratori e aziende. Dall’agosto scorso ha preso il via anche il sistema nazionale, andando a rafforzare l’azione. Parliamo di riconoscimento all’impresa di tutti i costi della malattia del lavoratore, del rappresentante territoriale dei lavoratori per la sicurezza sul lavoro, di buoni per asilo, scuole, libri, prestazioni sanitarie. Le aziende spesso considerano il contributo un costo. Non è un costo ma salario “diversamente reso”, a vantaggio della qualità della vita».