Un mondo di pomodori 

Emblema della cucina italiana, hanno una storia centenaria. In Italia si contano almeno 116 varietà. A Caravaggio un gruppo di pensionati coltiva 30 tipi di pomodori provenienti da sementi antiche 

Il pomodoro ha percorso un lunghissimo cammino dalle antiche civiltà azteche fino a diventare onnipresente nelle nostre tavole. Originario delle regioni andine, veniva coltivato in Messico: gli aztechi usarono il nome tomatl per indicare vari frutti di solanacee simili tra loro, mentre il pomodoro era chiamato xitomatl, che significa “frutto polposo”. Il pomodoro, insieme al mais, la patata, il peperone, il peperoncino e la patata dolce è arrivato in Spagna all’inizio del 1500 grazie a Cristoforo Colombo. Da Siviglia è approdato in Italia. Ma solo due secoli dopo, una volta superate diffidenze e paure, è stato utilizzato come ingrediente in cucina. La ricetta napoletana più antica di cui si è a conoscenza è la salsa di pomodoro alla spagnola e risale al 1692.

Dal Liberty bell al San Marzano: la classificazione

Classificare i pomodori non è proprio facilissimo. Se ne contano almeno 116 varietà in Italia, mentre nel mondo ne esistono migliaia. Si differenziano per il colore: ne esistono di gialli, verdi e addirittura neri. Il licopene, il carotenoide, che gioca un ruolo importante nella prevenzione dei tumori e che dà il nome scientifico alla pianta (Solanum lycopersicum), è presente in concentrazione maggiore proprio nel classico pomodoro rosso. E variano per la morfologia: tonda, allungata, a pera, a corno, ciliegino, costoluto, pizzutello, datterino. A volte il nome della cultivar, pur designando una provenienza, sottintende una forma. È il caso del San Marzano, dal nome del paese campano dove è dop, che costituisce categoria a sé con numerose sottospecie. «Un esempio di conformazione particolare è il Liberty bell, un pomodoro vuoto, dalla forma a campana, che si consuma ripieno di riso, cotto nel forno, come fosse un peperone – afferma Graziano Rossi, professore ordinario di Botanica ambientale e applicata nel Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente all’Università di Pavia  -. In Italia è arrivato dagli Stati Uniti a inizio ‘900. Lo si trova citato nel 1900 sul catalogo della ditta sementiera “Livingston’s Seed Annual”». E poi c’è la destinazione finale. «Una pubblicazione del 1958 classifica i pomodori in tre categorie: da mensa o insalata, ovvero da gustare crudi, da conserva, dunque destinati all’industria – prosegue l’esperto – e da serbo, legati alla cultura alimentare del Sud Italia che, conservati, potevano essere consumati nel periodo autunnale e invernale per arrivare fino alla primavera, grazie alla buccia più dura e a una speciale genetica che non li fa marcire».

Blush, Lidi, Coyote: ecco il “Pomo d’Oro”

Uno dei migliori è l’Aunt gertie, grosso, dorato, che deriva da un’antica varietà proveniente dallo Stato della Virginia, negli Stati Uniti. Il Blush è giallo con strisce rosse e si distingue per il sapore fruttato; somiglia al Lidi, ciliegino a grappolo, dolce e succoso. Il Coyote, selezionato in Messico, è quasi bianco. Il Dottore Carolyn è di color avorio e, maturo, diventa paglierino: è dolce e delizioso. «Il termine italiano “pomodoro” si deve al medico naturalista senese Pier Andrea Mattioli, al quale, verso la metà del ‘500, capitò di esaminare alcuni esemplari appena arrivati dall’America, che erano gialli, dunque in origine il frutto era di quel colore – spiega l’esperto -. Quelle varietà, scomparse dalla grande distribuzione, stanno tornando in commercio». Tra queste spiccano l’Azoichka, antica varietà russa dal colore limone brillante e gusto agrumato. E il Brandywine giallo platfoot con frutti grandi, dorati e leggermente a coste.

Zebra verde e cherokee nocivi? No, una delizia se fritti

I pomodori, con le melanzane, i peperoni e le patate, appartengono alla famiglia delle solanacee. Come dice il nome, foglie, radici e frutti contengono un alcaloide, la solanina, che è un glicosidico tossico perché rappresenta una difesa naturale per la piantina e il suo frutto da insetti e funghi. La sostanza, che tende a scomparire con la cottura, è contenuta in quantità più elevate nei frutti verdi come il Verde tedesco, la Zebra verde, il Cherokee.  La solanina può causare un’intossicazione solo se assunta in quantità superiore a 20 milligrammi per 100 grammi di prodotto fresco. «In Europa arrivarono varietà già selezionate da Inca e Aztechi che le mangiavano, ma, nonostante ciò, per due secoli, il pomodoro fu utilizzato esclusivamente come pianta ornamentale e veniva studiato dai botanici poiché lo si riteneva velenoso – racconta il professor Rossi -. Mia moglie, quando rimase incinta, 21 anni fa, chiese al ginecologo il permesso di mangiare le patate. Oggi, come ci ha insegnato il film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, i pomodori verdi sono buonissimi. Anche in Romagna è tradizione gustare infarinati e fritti quei frutti che, arrivati a fine stagione, non maturano. Senza dimenticare la marmellata di pomodori verdi». Sempre all’origine dell’introduzione del pomodoro in Europa, non mancarono credenze bizzarre: al pomodoro venivano attribuiti poteri afrodisiaci e veniva utilizzato per le pozioni magiche. Questo spiega i nomi dati a questa pianta in varie lingue, ricordati da Leopoldo Tommasi nel suo testo, “Vecchie e inconsuete varietà di pomodori”: Pomme d’amour in francese, Love apple in inglese, Libesapfel in tedesco, pumu d’amuri in Sicilia.

Gli antiossidanti nel Nero di Crimea e di Kiss the Sky

Anche in Italia si comincia sempre più spesso a vedere in tavola il pomodoro nero. La varietà più nota è il Nero di Crimea, che ha origine nell’isola di Krim, in Ucraina. I semi sono arrivati in Italia proprio grazie ai soldati di ritorno dalla guerra di Crimea nella prima metà dell’800. Esiste anche il Ciliegino nero, dal sapore intenso, che esplode in bocca, il Nero cinghiale con strisce verdi, dal sapore ricco, Kiss the sky, dolce come il ciliegino, ma più grande e rarissimo. Oltre a essere buono, il pomodoro nero possiede proprietà interessanti dal punto di vista nutritivo: è, infatti, ricco di antociani, sostanze dal forte potere antiossidante, che gli fanno assumere un colore nero bluastro intenso. Nel 2009, da un incrocio di specie, è nato il Sun Black. In quell’anno, un consorzio di atenei, costituito dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, la Tuscia di Viterbo e le università di Modena, Reggio Emilia e Pisa, misero in piedi il progetto di ricerca ed è attualmente sul mercato. Particolare il Nero del Canada, inizialmente chiamato P20 o Osu Blue, è un ibrido tra un pomodoro e una solanacea selvatica peruviana, ottenuto dall’Oregon State University dal professor Jim Myers, che da anni porta avanti interessanti lavori di ibridazione.

A Caravaggio si coltivano Mirtillo e Cornu del Tempestì

Il Pisanello, il Principe borghese, l’Ottombrino, il Canestrello di Lucca, il Cherokee purple, il Cornu del Tempestì sono nomi che non sentirete in un supermercato. Sono alcuni dei 30 tipi di pomodori, coltivati dal gruppo di pensionati, che hanno dato vita agli Orti Biodiversi Caravaggini, guidati dal presidente Adalberto Sironi. L’associazione si è formalizzata nel 2010 e si dedica con passione alla coltivazione di verdura e frutta, riscoprendo sementi antiche che altrimenti andrebbero perse. Gli orti sono affiliati dell’associazione nazionale Civiltà Contadina. Sironi prepara le sementi e le conserva in un barattolo a chiusura ermetica in armadio: la banca dei semi. «Tra le più particolari il Mirtillo, il cui diametro varia dai 4 agli 8 millimetri, e il Cornu del Tempestì o Corno delle Ande, che si pela e gusta come una banana – racconta Sironi -. Il Tempestì era il soprannome di Luigi Legramandi, che non c’è più, coltivava questa varietà a forma di corno portata decenni prima dal Sud della Francia, dove aveva lavorato». La sua filosofia si ispira al motto «senza cultura non si semina più». «La caratteristica comune non è la provenienza, ma che siano semi non ibridati, questo vuol dire antichi – spiega -. La biodiversità è curare varietà che magari non sono autoctone ma si sono mostrate adatte a un microclima, nel nostro caso quello della Bassa, e vi si sono stabilizzate. La prova del nove non è solo che diano un buon raccolto, ma che siano buone in tavola».