E’ bastato che trapelasse l’indiscrezione non confermata che Deutsche Bank, la prima banca tedesca seppure ultimamente un po’ acciaccata, non fosse in grado di rimborsare le cedole di un bond subordinato in scadenza 2017 perché il titolo finisse nella bufera con un calo a due cifre, nonostante tutti i proclami da parte dell’istituto e del governo sulla solidità del gruppo. Solo quando è stata fatta uscire, presumibilmente ad arte, l’indiscrezione di riparazione che il gruppo starebbe considerando un’operazione di riacquisto del proprio debito, l’isteria del mercato è rientrata. La banca continua ad essere sotto stretta osservazione, ma il fatto che abbia anche soltanto la possibilità di un’idea di buy back ha dato l’apparenza di una situazione di liquidità sotto controllo. I problemi rimangono, tanto è vero che giovedì i credit-default-swap, le coperture che assicurano dal rischio di insolvenza sono balzate a 265 punti base, così che la prima banca tedesca è sentita più rischiosa della prima banca italiana (Unicredit) che è ferma a 245, ma almeno i mercati si sono leggermente rilassanti. Al di là di tutti gli indici e i parametri, in fondo, quello che vogliono i clienti, e quindi gli investitori, da una banca è tranquillità e fiducia ben riposta. Quando questa viene minata, a torto o a ragione, il risultato sono le pazze oscillazioni di questo inizio 2016.
All’origine dei dubbi sulla solidità degli istituti italiani c’è infatti paradossalmente il salvataggio delle quattro banche commissariate, realizzato grazie alle risorse dello stesso sistema creditizio nazionale. Un’operazione che invece di essere vista come espressione di solidità degli istituti italiani, ha acceso un faro sulla possibilità che anche gli istituti di credito possano fallire e sull’esistenza dell’accordo europeo sul bail-in, con una differente rischiosità per chi ha rapporti con le banche. In fondo nulla di particolarmente diverso (se non per i possessori di quei 58 miliardi di obbligazioni subordinate in circolazione a fine anno) da quanto accadeva prima in Italia, ma sufficiente per mettere agitazione, come se all’improvviso ogni banca dovesse fallire. A volte basta una piccola ingenuità, un venticello, per incrinare la credibilità. E provocare un crollo del titolo, come è accaduto giovedì per Ubi, un clamoroso meno 12% finale dopo perdite in corso di seduta ancora più alte, nel giorno della pubblicazione di risultati forse non eccelsi in termini assoluti, ma comunque più che dignitosi nel contesto attuale, tanto da permettere un lieve incremento del dividendo. Lo scivolone è avvenuto, a parere di molti, su una questione in fondo marginale come il diritto di recesso. In ottobre, in occasione della trasformazione da popolare cooperativa in Spa, Ubi ha previsto la possibilità per i soci dissenzienti di uscire dalla società rivendendole le azioni, come il codice civile prevede in caso di trasformazioni. Nell’occasione è stato fissato un limite ai rimborsi, che incidono negativamente sul patrimonio, ad una quota che in ogni caso non facesse scendere il coefficiente Cet1 a regime sotto un livello calcolato su una media parametrata europea. A ottobre questo si traduceva in circa 350 milioni di disponibilità per l’operazione. A chiedere il recesso sono stati soprattutto fondi di investimento che avevano deciso di uscire al prezzo fissato di 7,288 euro per azione, valore che all’epoca era prossimo a quello di Borsa, con circa 35,5 milioni di azioni (poco meno del 4% del capitale) per un importo totale di circa 257 milioni, quindi ampiamente all’interno della previsione di spesa.
E’ successo però che in pochi mesi il cambiamento dello scenario e i contributi al fondo di risoluzione e in generale all’operazione di salvataggio dei quattro istituti commissariati, hanno eroso gli indici patrimoniali ed hanno ridotto a circa 13 milioni di euro (a fronte di richieste rimaste a circa 257 milioni) la possibilità di riacquistare le azioni da parte di Ubi senza scendere sotto il limite patrimoniale prefissato. Così solo il 5% delle domande di recesso potrà essere accolta. E chi pensava di poter vendere a 7,288 euro ora si trova titoli che valgono meno di 3 euro. Tutto logico, corretto e condivisibile, ma nonostante tutte le spiegazioni, il messaggio rovesciato che è passato è che Ubi non può pagare quanto annunciato. Il che formalmente non è nemmeno falso, anche se le ragioni sono diverse da una crisi di liquidità – il peggior rischio per una banca – come un’affermazione del genere potrebbe invece fare immaginare. L’ad Victor Massiah ha parlato di una “reazione assolutamente inorridita” da parte dei fondi. Fatto sta che si sono scatenate le vendite, con scambi per oltre 30 milioni di azioni, oltre il 3% del capitale, quasi quanto i titoli che hanno chiesto il recesso (che però sono congelati nell’operazione) e più dell’intero pacchetto dichiarato dal Patto dei Mille. Grandi vendite, quindi, ma quando ci sono scambi vuol dire anche che ci sono grandi acquisti. E si può immaginare anche che ci siano costruzioni di posizioni importanti a prezzi scontati che poi si vedranno in assemblea. Se ci fosse una mano forte che ha rastrellato quanto è stato precipitosamente venduto si sarebbe creato in una giornata il terzo maggiore azionista della banca. I giochi insomma non sono ancora fatti, mentre per il titolo è da aspettarsi ancora un’ ampia volatilità.