Sei a Parigi per una breve vacanza e scoppia il finimondo. Mentre passeggi con la tua famiglia tra i mercatini natalizi degli Champs Elysées, in altri quartieri della città, ma nemmeno troppo lontani, lo scoppio delle bombe e il crepitio dei fucili irrompe con il suo straordinario carico di terrore e violenza nella vivace frenesia del venerdì sera. Lì per lì nemmeno ti rendi conto dell’enormità che sta succedendo e che solo per un disegno del destino (poche ore prima eri passato proprio dalle strade segnate dal sangue) ti ha risparmiato. Ma poi arriva l’onda emotiva degli sms e delle telefonate di parenti, amici e colleghi. Le immagini della TV, le parole dei testimoni, le lacrime per le vittime. E gli sguardi, quegli occhi persi nel vuoto, le teste rivolte al cielo. “C’est la guerre” sussurra guardando le immagini che scorrono sul televisore una addetta di un albergo la mattina dopo. È il primo segno di una Parigi smarrita ma consapevole di essere ormai diventata la nuova frontiera del terrorismo. C’è il dolore, la paura, la rabbia, certo. Ma anche la dignità, la determinazione a non farsi piegare dall’orrore, la forza di stringersi in un abbraccio collettivo per cercare di rispondere alla minaccia terroristica senza distinzioni ne’ divisioni. Si prova un profondo rispetto, un senso di ammirazione che trova ulteriore conforto nel vedere come tutte le forze politiche francesi, di governo come di opposizione, evitano qualsiasi commento, lasciando che parli solo lo Stato. Nelle stesse ore, lo vedi prima via satellite e poi dal salotto di casa, nei programmi televisivi italiani sulla strage parigina va in scena uno spettacolo fra il penoso e il vergognoso. In prima serata, sul canale principale, dallo studio del talk show più famoso rimbalzano le urla scomposte di un agitato segretario di partito contro il ministro dell’Interno che a sua volta non riesce ad andare al di là di una spocchiosa autodifesa del proprio operato. Seguono le dichiarazioni di questo e quell’altro leader, tutti impegnati a trattare il terrorismo alla stregua di una baruffa da cortile. E il giorno dopo, l’abbuffata è completa. C’è il conduttore invasato, reduce da un surreale e criticato viaggio in Iraq, che chiede ad un rappresentante di comunità islamica un’abiura in diretta. La collega esperta in sceneggiate che ripete compulsivamente “basta guerre, basta guerre” e poi spruzza benzina sugli ospiti scelti ad hoc per scatenare guerre (solo verbali, per carità). Il direttore di giornale che prende a capocchia un versetto del Corano, quello che gli è più funzionale per trasformare l’Islam in una ideologia della violenza (come se il cattolicesimo nei secoli avesse sempre solo dispensato ramoscelli d’ulivo…). Il presidente di una associazione umanitaria, un uomo coraggioso beninteso, che demolisce tutte le analisi degli interlocutori con un inappellabile “non avete capito niente”. E dalla strage non sono trascorse nemmeno 48 ore. L’abisso è profondissimo. È morale e culturale insieme, di costumi e usi politici ma anche giornalistici. Francia e Italia, così vicine e così lontane. Il cuore è a Parigi, la mente guarda a questo squallido spettacolo e non può respingere lo sconforto. Prima o poi, inutile illudersi, pagheremo il nostro tributo. Nessuno può dire dove, come e quando, ma va messo in conto. I francesi oggi in ginocchio ci stanno dando una grande lezione. Vogliamo provare a comprenderla, e se possibile a farla nostra, o dobbiamo per forza aspettare di contare i morti per mostrare un sussulto di dignità?