I dati lo indicano come una formula che regge davanti al calo dei consumi, un sistema che, pur toccato – come tutti – dalla crisi, ha dalla sua parte elementi capaci di offrire maggiore competitività alle aziende commerciali. In effetti il franchising – con la sua dotazione di esperienza, prodotti, ambiente, immagine e comunicazione già collaudati – rappresenta una strada più semplice rispetto al “fai da te”, sia per i negozianti che vogliono aggiornare la propria offerta in una chiave più moderna sia per chi vuole lanciarsi per la prima volta in un’attività in proprio, prospettiva oggi presa in maggiore considerazione per via delle difficoltà occupazionali.
Secondo il rapporto di Assofranchising, ad esempio, lo scorso anno in Italia il fatturato dei franchisor, ossia le aziende affilianti, è aumentato di 166 milioni di euro (+0,7% rispetto all’anno precedente, +2% nel biennio 2009-11) ed i punti vendita, al netto delle chiusure, sono saliti di 83 unità (+0,2%), una lieve positività che diventa ben più significativa paragonata alla generale flessione del numero di aziende commerciali.
Ma la crisi, se da un lato accende l’interesse sull’affiliazione, dall’altro ne evidenzia i problemi. Per supermercati e market, in particolare, Renato Rodigari, presidente del gruppo gastronomi e salumieri dell’Ascom, oggi parla di vero e proprio allarme, della necessità non più prorogabile di rivedere i rapporti tra le grandi catene ed i gestori, perché è su questi ultimi che finiscono per ricadere le maggiori conseguenze del difficile momento economico. «In Bergamasca – afferma – ormai tutti i supermercati appartengono ad una rete in franchising, indipendentemente dalla superficie. Anche il piccolo market sotto casa si trova a dover affrontare un passaggio, in pratica, obbligato se vuole rimanere sul mercato. Il franchising, in questo settore, non è più un aspetto particolare della distribuzione, ma rappresenta la forma prevalente in cui vengono esercitate le attività, non solo a Bergamo ma in tutta Italia. Questo nuovo scenario fa nascere l’esigenza di maggiore attenzione e supporto alle imprese, che come Ascom ci stiamo impegnando a portare avanti a livello nazionale».
I gestori, o franchisee, lamentano gli eccessivi vincoli imposti dall’azienda madre, che in tempi di crisi arrivano a minacciare la sostenibilità e la sopravvivenza dell’attività. «I contratti sono differenti a seconda del marchio – spiega Rodigari –, in media, comunque, un punto vendita è obbligato ad acquistare il 98% dei prodotti dalla società affiliante, a seguire politiche di prezzo imposte e a partecipare alle promozioni e alle raccolte punti sostenendone le spese. A carico del gestore ci sono poi i costi del personale, delle utenze, l’affitto e la manutenzione ordinaria, solo per citare le principali». L’imprenditore si trova così stretto tra due fuochi che gli lasciano ben poco margine di azione. «In pratica – prosegue il presidente – non ha autonomia nella gestione e, anzi, spesso si trova addirittura costretto ad agire contro la propria scelta imprenditoriale, eppure risponde personalmente dell’andamento dell’attività senza ricevere alcun supporto dal franchisor in caso di difficoltà. Detto fuori dai denti, la catena si prende i vantaggi, mentre se ci sono delle perdite se le accolla tutte il gestore».
Le ragioni di questo squilibrio sono dovute al diverso peso degli attori in campo. L’avvocato Barbara Bari sta seguendo alcune vertenze tra affiliati e franchisor in Bergamasca ed ha avuto modo di approfondire l’argomento analizzando vari contratti relativi ai supermarket. «La legge che ha introdotto in Italia l’istituto giuridico del franchising – spiega – è del 2004. Di per sé contiene regole precise e oggetti specifici che devono essere contenuti nei contratti, nella prassi, però, avviene che i contratti sottoscritti sono quelli predisposti dall’affiliante, ossia dai grandi gruppi della distribuzione organizzata che, naturalmente, li impostano a proprio favore. Ciò capita in primo luogo perché nella maggior parte dei casi si contravviene all’obbligo di trasmissione 30 giorni prima della firma all’affiliato, che non ha quindi la possibilità di approfondire le condizioni né di ottenere modifiche che ristabiliscano l’equilibrio tra le parti». Tra gli aspetti maggiormente fonte di controversie c’è il fatto che «gli affiliati non vengono informati o lo sono in modo parziale degli investimenti iniziali richiesti – prosegue l’avvocato – e che non riescono ad avere un quadro preciso delle potenzialità del punto vendita e dei costi di gestione».
Il nodo sta perciò nell’avvio del rapporto. «Da parte degli imprenditori c’è un po’ di timore reverenziale – ammette Rodigari – nei confronti di questi colossi e non si pensa di poter controbilanciare le loro proposte, spesso presentate quasi come delle concessioni. La prima azione che l’associazione di categoria oggi può fare è migliorare l’informazione, consigliando per lo meno di valutare con un professionista il contratto se non addirittura proponendo un servizio apposito di consulenza». «Oltre a richiedere che vengano riportate nel contratto tutte le informazioni che il franchisor fornisce all’affiliato in tema di investimenti e spese di gestione del punto vendita – dice l’avvocato Bari -, si può consigliare di mettere nero su bianco altri punti importanti come la descrizione del know-how e del tipo di consulenza commerciale che saranno forniti al gestore, gli ambiti e le estensioni della clausola di esclusiva, la durata del contratto e gli obblighi di riservatezza sul know-how acquisito». «Le condizioni – rileva Barbara Bari – possono anche variare in base alla posizione del punto vendita, alla qualità del bacino di utenza o a particolari esigenze. Il momento economico porta inoltre a ipotizzare di prevedere una revisione periodica delle voci, che tenga conto di fattori come il calo dei consumi e l’aumento dei costi».
Tra gli altri aspetti gravosi e penalizzanti segnalati dagli affiliati ci sono la presenza di una fideiussione “a prima richiesta” che il franchisor può far valere a fronte di un qualsiasi inadempimento, la difficoltà a raggiungere i target fissati e, nel caso il rapporto si incanali verso la conclusione, problemi legati alle modalità e ai tempi di preavviso (che vanno ad investire anche i dipendenti) e a farsi riconoscere l’eventuale incremento di fatturato realizzato durante la gestione. «Le difficoltà, come si vede, sono molte – riassume Rodigari – e la crisi le sta accentuando, per questo crediamo serva un intervento su base nazionale che tuteli gli imprenditori. I vincoli eccessivi stanno mettendo a rischio un importante valore per il sistema commerciale, che è la conoscenza che il gestore ha delle specificità territoriali e la capacità di modulare l’offerta in base a queste». «Il riequilibrio tra le parti è legato al contratto – conclude l’avvocato -, ma anche qualche ritocco alla legge, prevedendo ad esempio sanzioni più immediate e pesanti in caso ci si discosti dalla norma, potrebbe dare una mano».