I problemi delle sofferenze bancarie sono noti da tempo e non solo tra gli addetti ai lavori. Quei duecento miliardi di euro di prestiti non restituiti – oltre a dimostrare che le banche toglieranno l’ombrello anche a chi ne ha bisogno per darlo a chi non ne ha (ma troppo spesso c’è chi si porta via il parapioggia) – stanno da tempo drenando la redditività del sistema per destinarli ad accantonamenti su crediti, oltre che al rafforzamento patrimoniale imposto dalle autorità di vigilanza. Il risultato è che per far quadrare i conti da anni le banche stanno cercando di ridurre i costi, operazione che si traduce prima di tutto in risparmi in personale e sportelli, e aumentare i ricavi, operazione non facile soprattutto in tempi di tassi quasi zero.
Nonostante tutto questo fosse ormai abbondantemente noto, almeno per chi lo avesse voluto sapere, la Borsa sembra che l’abbia scoperto solo quando a metà gennaio la Banca centrale europea ha fatto la richiesta di informazioni supplementari. Lì si è disegnata la lavagna dei buoni e dei cattivi, con un massacro delle quotazioni innanzitutto per gli istituti oggetto dell’indagine. Seppure con il beneficio del dubbio e dell’errore, e secondo il principio che anche i peggiori sospettati possono sempre dimostrare la loro innocenza, come è del resto nell’obiettivo di questa ispezione, l’iniziativa del Single supervisory mechanism, la vigilanza dell’Eurotower, con l’invio di questionari alle banche europee per un esame dei non performing loans (i crediti non performanti, con eufemismo inglese), in parallelo con l’attività ispettiva a verifica del livello delle coperture ha spezzato in due il sistema creditizio italiano.
Da una parte Banco Popolare, Bpm, Bper, Mps, Carige e Unicredit, che sono state “nominate”. Dall’altra Ubi, Intesa, Mediobanca,Credem e Popolare di Sondrio, che non lo sono state. Ma la bufera solo in una prima fase si è concentrata sul primo gruppo, prima di generalizzarsi. Perché è vero che alcuni istituti possono avere più problemi di altri a sostenere il peso della zavorra, ma il sistema creditizio si appoggia su se stesso. Il crollo di un istituto viene sopportato dagli altri, per evitare un effetto domino. Finora questa regola ha funzionato. Dal Banco Ambrosiano al Banco di Napoli, alle crisi degli istituti monosportello c’è sempre stato un cordone di salvataggio che ha permesso di risolvere egregiamente i problemi, a volte anche prima che scoppiassero.
Ma a metà novembre si sono viste le prime crepe di questo sistema, che funziona, ma è oneroso: il decreto per evitare guai peggiori e dare una prospettiva di sistemazione alle quattro banche commissariate (Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), che tutte insieme valgono l’1% del mercato, ha comportato il ricorso al fondo di garanzia istituito dalle banche italiane proprio per questi casi. Era già stato fatto un anno prima, per risanare la più piccola Banca Tercas-Caripe, poi andata alla Popolare di Bari, senza particolare attenzione dei media, disinteressati alle conseguenze dei maggiori costi sopportati dalle banche. Questa volta però il conto è più salato: 3,9 miliardi, che presumibilmente rientreranno solo parzialmente dall’incasso derivante dalla vendita degli istituti.
In questo momento, con i commissariamenti ridotti a pochi casi e relativi a piccoli istituti, ci si trova in una situazione di equilibrio instabile. I salvataggi degli ultimi mesi appesantiranno i conti del 2015, rendendo più complicato il compito di accantonare risorse per le sofferenze e per irrobustire il patrimonio, ma aprono dubbi anche sul futuro prossimo. Le maggiori preoccupazioni arrivano ovviamente dalle banche più chiacchierate, ma ci si chiede se le banche sane, che già stanno pagando per problemi altrui, saranno in grado di continuare a saldare il conto. Salvataggi avventati possono trascinare nel baratro il volenteroso salvatore, anche se al momento non si presentano grandi alternative e il rischio è che la volatilità (al ribasso) che si è scatenata di fronte alla sistemazione di banche che valgono l’uno per cento del mercato si possa moltiplicare quando l’intervento riguarderà istituti di maggior peso.