Abbiamo una tradizione: oggi come oggi, facciamo finta di nulla, eppure la tradizione c’è. Spesso, si fa finta che non ci sia, perché ci vergogniamo di essere diventati quel che siamo, e la tradizione è la cartina tornasole del nostro declino: però, lei è lì, ugualmente, a prescindere da quanto noi strizziamo gli occhi per non vederla. E la tradizione ci racconta tante cose che, talvolta, ci piacerebbe non sapere. Per esempio, che, quale che sia stata la loro vita, i morti vanno rispettati. Tutti. Parce sepulto, dicevano gli antichi: e una lunga teoria di scrittori e di pensatori, nel corso della nostra lunghissima storia, ha ribadito e perfezionato questo nobile concetto. Parce sepulto: sia che il morto ti fosse caro, sia che, viceversa, lo considerassi persona esecrabile ed odiosa in vita, una volta cadavere, egli diveniva intoccabile, sacer, immune tanto agli insulti quanto alle azioni insultanti. Certo, un tempo la morte era cosa affatto diversa: restituiva all’uomo, anche al più potente, il contatto con la terra, l’humilitas, da cui proviene il concetto francescano di umiltà. I re, prima di morire, vestivano un saio di bigello e si sdraiavano sulla pietra, con un sasso per cuscino: questo li spogliava dell’assise onde erano venerati e serviti, ma li sottraeva al giudizio umano, per affidarli a quello di Dio. Fu solo con l’avvento della morte borghese che le tombe divennero celebrazione della pompa e non luogo di preghiera e penitenza: un poco alla volta, i morti cominciarono ad essere creduti vivi. E ad essere trattati da vivi: proporzionalmente al crescere di una fifa birbona di morire, aumentò il numero dei trucchetti per ingannare la morte. Il morto venne vestito, imbellettato, trasformato in un manichino che assomigliasse ad un vivo: del pari, poco a poco, quel rispetto sacrale che alonava il defunto si sbriciolava, lasciava il posto alla volgarità della vita, alle pantomime della vita.
Così, oggi, ci ritroviamo a celebrare la morte come se fosse un carnevale: dimentichi del tutto della tradizione, sobria e pietosa, dei nostri avi. La gente applaude il feretro che esce dalla chiesa dopo le esequie, come se si trattasse di un cantante o di una personalità pubblica in visita ufficiale: niente di più barbaro ed inguardabile, gli applausi al funerale. E, dietro alla morte di una persona famosa o influente, non c’è mai la considerazione rispettosa per una condizione che, prima o poi, toccherà a tutti, ma sventola il codazzo degli odi e degli amori, quasi in un supplemento di esistenza. I social network hanno moltiplicato e velocizzato enormemente questo dilagare di volgarità e di trivio: lì, la morte diventa definitivamente circo, fiera, mercatino delle pulci. Come esiste la moda, come ci sono le prevendite dei telefonini, così ci sono i coccodrilli, i necrologi fai da te, dei grandi personaggi che se ne vanno. Per una settimana, tutti conoscono la discografia completa del cantante morto, e poi l’oblio. Tutti hanno visto tutti i film dell’attore famoso, e poi l’oblio. Tutti sanno, tutti piangono, tutti si disperano, e poi cala il sipario, in attesa della prossima occasione di sproloquio, del prossimo funerale mediatico, della prossima farsa necrofila. Oppure, il che è peggio, muore un uomo pubblico, e la sua morte è accolta da cachinni e da insulti, oppure da sesquipedali sbrodolate encomiastiche: talvolta, da entrambe le cose, in una specie di fiera della vanità alla rovescia, in un carnevale dei pazzi.
E’ il caso della scomparsa di Carlo Azeglio Ciampi, che è l’episodio che mi ha indotto a scrivere di morte, in questo articolo. Ciampi non è stato un santo: aveva molte pecche e qualche frequentazione poco felice. Lo si è dipinto come una specie di salvatore della Patria, che è un ruolo perlomeno opinabile, per chi ci ha trascinato, a mani e piedi legati, in Europa. Insomma, si è abusato con l’incenso, secondo un costume incensatorio proprio dei popoli servili per natura. Al tempo stesso, però, internet ha traboccato di insulti e di auguri di bruciare all’inferno, all’indirizzo dell’estinto, colpevole, secondo gli autori dei poco nobili interventi, di tradimento, massoneria, arricchimento sulla pelle dei contribuenti. Ecco, io dico che Ciampi è morto e, in quanto morto, merita rispetto: quel rispetto che si deve a chi muore. Lo si poteva incensare ed omaggiare in vita; oppure dedicargli vie e piazze a tempo debito, una volta sceso il silenzio sul lutto recente. E, allo stesso modo, si poteva contestare da vivo: scrivere delle sue, vere o presunte malefatte ai danni delle tasche degli Italiani, quando poteva ascoltare e difendersi, non ora, che giace gelido in una bara. Oppure attendere che la storia di Ciampi venga scritta: e in quella sede argomentare delle sue colpe e delle sue virtù.
Eccessivo, infine, il minuto di silenzio negli stadi, ripugnanti, sempre negli stadi, i fischi e gli insulti al suo indirizzo. Entrambe testimonianze di un popolo che ha smarrito il senso delle cose: ha perduto il contatto con la propria tradizione di civiltà e di umanità. Ecco, l’Italia degli stadi e dei social network, l’Italia che bercia e che offende i morti oppure li applaude, come a teatro, è l’Italia che più mi disturba: quella per cui, all’estero, mi verrebbe da fingermi svizzero, certe volte. Noi siamo un popolo dalle potenzialità formidabili, soprattutto grazie al nostro formidabile passato: se ci dimentichiamo la lezione dei nostri padri, molto difficilmente trasmetteremo un’identità positiva ai nostri figli. Cerchiamo di insegnare loro il rispetto, tanto dei vivi quanto dei morti: così, quando toccherà a noi varcare quella soglia tenebrosa e piena di incognite, non ci saluteranno con un applauso o una pernacchia, ma con il silenzio del dolore e del rimpianto. Insieme all’orgoglio di aver avuto un genitore dalla schiena diritta e non un pagliaccio.