Reciprocità: quanti delitti si commettono in tuo nome. Io non so, onestamente, dire se questa idea balzana della reciprocità sia figlia di una malintesa visione giuridica o se derivi, piuttosto, da un’applicazione su scala planetaria delle vecchie regole che sovrintendevano alle partite di nascondino e toc-rialzo, nel parchetto davanti casa. Fatto sta che, con crescente fortuna, va affermandosi la teoria – se mi è concesso, un filino aberrante – della reciprocità assoluta. Me ne stupisco, giacché, in un’epoca dominata dal relativismo, un simile concetto, anziché superare Wittgenstein in direzione di una maggiore civiltà, lo distanzia anni luce in quella della dogmatica barbarie. E, vieppiù, me ne dolgo, perché denuncia la debolezza intrinseca del nostro sistema etico e valoriale. Vediamo di capirci. Viviamo in un’epoca in cui contano di più i tribunali televisivi di quelli veri: in cui il sentito dire, la bufala o la semplice maldicenza godono di stima superiore a quella che spetta alle analisi più attente e ai giudizi più ponderati: non ci si può far nulla, almeno a breve termine, perché questi sono i tempi, e il popolo, ormai, si avvia ad essere plebe. Però, non dovremmo lasciarci attrarre da una visione semplicemente aritmetica della morale: non possiamo permetterci di misurare l’identità e la civiltà del nostro popolo con la stadera del mercatante. Invece, purtroppo, sento, sempre più spesso, ragionare così: e non solo da parte delle sciampiste in libera uscita, ma anche da persone di una certa, vera o presunta, educazione e cultura. Cito due esempi, che mi pare possano degnamente rendere l’idea di cosa intendo per abuso del concetto di reciprocità. Il primo riguarda l’Isis e, più in esteso, il giudizio che l’italiano dà del mondo islamico. Premesso che gli italiani che abbiano viaggiato in paesi a maggioranza islamica sono minoranza e che, tra costoro, quelli in grado di andare oltre il kebab o il thè alla menta sono uno sparuto manipolo, moltissimi miei compatrioti si appellano costantemente al concetto di reciprocità, per giudicare quello che dovrebbe essere il nostro comportamento nei confronti dei musulmani. Quando ci lasceranno costruire chiese in casa loro, faremo costruire loro le moschee in casa nostra: questo, a un dipresso, il senso del discorso. O, peggio, di fronte alle efferatezze scellerate dei tagliagole del Califfato, si commenta: bisognerebbe fare lo stesso con loro! Immane bischerata: se quelli sono delle bestie primitive e sanguinarie, noi siamo i figli di Cicerone e di Seneca. E sarebbe bene non dimenticarcelo mai! Non è che, se ci confrontiamo con un cretino, dobbiamo per forza fare i cretini a nostra volta: anzi, il nostro retaggio ci impone categoricamente di essere diversi. All’inciviltà, alla barbarie, alla violenza, si risponde con la civiltà, con la cultura e con la forza: abbassarsi ad un muro contro muro ci qualifica uguali ai nostri contendenti. Noi dobbiamo costruire moschee (con juicio, intendiamoci) anche se in Yemen vengono distrutte le chiese, proprio perché noi non siamo così: perché, se facessimo anche noi così, saremmo sconfitti su tutta la linea, perché avremmo perso, definitivamente, la nostra identità e la nostra dignità di uomini occidentali. Il secondo esempio riguarda la prima pagina di un quotidiano che, gongolando per la catastrofe dell’A320 sulle alpi francesi, intitolava “Schettinen”: come dire che noi abbiamo Schettino, ma anche i tedeschi, che fanno tanto i fighi, non se la passano gran bene. Il tutto, a ripicca di analoghi titoli apparsi sulla stampa germanica in occasione del disastro della Costa Concordia. E, dunque? Vogliamo davvero esibirci in una gara al ribasso? Quando in Svizzera esploderà un impianto nucleare, commenteremo con prime pagine ironiche sulla presunta precisione elvetica? Questa è una polemica da miserabili: è come quando, negli stadi, si fischia l’inno nazionale degli avversari. Se i tedeschi hanno esibito un tonfo di stile, in occasione di una nostra tragedia, noi, “gentil sangue latino”, dobbiamo metterci allo stesso livello? In questo modo, si innesca solo una corsa all’inciviltà: si perde definitivamente il senso della bellezza, dello stile, dell’umanità. Io non la voglio un’Italia così: gente che giustifica le proprie malefatte col fatto che anche altri le commettono, che insulta e fa vergognosa satira su di un dramma, solo perché qualche mutandone d’Oltralpe lo ha fatto con noi. Io vorrei un’Italia che, una volta tanto, desse l’esempio di come ci si comporta: un’Italia dignitosa e seria, rispettosa e composta. Invece, dietro la scusa della reciprocità, della maledetta reciprocità, vedo ignoranza e livore, vigliaccheria ed intolleranza. Ci vorrebbe un Rinascimento: ma, per ottenerlo, bisognerebbe, prima, liberarci di questo complesso d’inferiorità che ci avvelena. Bisognerebbe applicare la reciprocità negli esempi positivi e non in quelli vergognosi. Bisognerebbe, in altre parole, aver voglia di far la fatica di imparare e di insegnare. Che è l’unica reciprocità che serva veramente a qualcosa.