Salvaguardiamo le imprese storiche, un valore per le nostre comunità

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Il problema del nostro territorio non è favorire il tasso di imprenditorialità. I bergamaschi sono storicamente propensi a creare un’attività d’impresa: è nelle corde storiche di un popolo lavoratore e di emigranti.

È necessaria, invece, la conservazione del tessuto delle imprese del terziario in un momento di difficoltà che incide sulla sopravvivenza dell’azienda stessa.

In questi anni le politiche centrali e regionali hanno incentivato la creazione di impresa e aiutato le nuove imprese senza renderle strutturalmente più forti. A parte le start up innovative che da noi restano poche, per le altre non ci sono stati veri e propri incentivi.

Misure che non chiamerei neppure “tampone” e destinate a non dare frutti. Anzi in alcuni casi gli aiuti hanno richiesto lo sforzo postumo da parte dei nostri imprenditori di restituire gli incentivi, in quanto non sono stati in grado di far fronte alle richieste che l’erogazione del contributo imponeva.

Statistiche alla mano, negli ultimi anni hanno chiuso due nuove imprese su tre. 

Troppo poco invece si è fatto per la sopravvivenza delle imprese, soprattutto di quelle storiche per le quali si sono spesi riconoscimenti e belle parole e poco altro. Non vogliamo essere corporativi.

Un’impresa nuova non ha meno dignità di una che è sul mercato da molto tempo; anzi molto spesso è portatrice di valori imprenditoriali e competenze, soprattutto digitali, superiori a quelle tradizionali. Il problema è la capacità di sopravvivere a lungo termine e di offrire in continuità servizi e lavoro.

Vent’anni fa le imprese passavano per successione famigliare o vendita. In entrambi i casi, con il necessario periodo di affiancamento, veniva garantita una continuità di mercato e un passaggio di competenze. Oggi, salvo poche eccezioni, le imprese chiudono ed aprono in discontinuità assoluta, settoriale e soggettiva.

Il sistema perde quindi le competenze tecniche e imprenditoriali di chi chiude definitivamente.

Non è un caso che per le attività maggiormente in rotazione, come i bar, la successione sia solo nel valore degli arredi. In questi anni notiamo imprese più deboli che sostituiscono quelle che chiudono, con sempre meno risorse disponibili per ammodernare.

Cosa fare? Se in altri settori potrebbe bastare agire sulle condizioni fiscali e il costo del lavoro per evitare delocalizzazioni, nel terziario occorre agire sulle regole di apertura. La deregulation, travestita da liberalizzazione, ha spaccato il settore. Negli altri Paesi europei, come la Germania, non si è liberi di aprire dove e quando si vuole. Il decreto Bersani, a vent’anni dalla sua introduzione, non risponde più alle esigenze dello sviluppo equilibrato del commercio. Bisogna porvi presto rimedio. 

Ma non basta. Occorre riconoscere la funzione di servizio delle piccole attività commerciali e riconoscere sgravi e incentivi tali da metterle in condizioni di equilibrio rispetto ai concorrenti, grande distribuzione e on line.

La “Rete di imprese storiche” non vuole essere il museo da rimpiangere ma un ecosistema vivo di relazione e di servizio per la gente che va conservato. Il nostro progetto di valorizzazione delle imprese storiche è il primo passo per porre l’enfasi sul bisogno e trovare soluzioni.

Le difficoltà dei negozi e dei pubblici esercizi della montagna e dei piccoli comuni vanno evidenziate. Altrimenti le piccole imprese, nuove e storiche, non ce la faranno. La prossimità dei nostri negozi non è solo geografica ma è di relazione. È questo  che vogliamo salvaguardare.