Resti: “Sono un provinciale, 
ma ho le idee per cambiare Ubi”

Resti: “Sono un provinciale, ma ho le idee per cambiare Ubi”

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Professor Resti, cominciamo parlando di libri. Sintomaticamente, la sua lettura preferita è “Guerra e pace”…
“E’ vero, è un libro che ho spesso regalato ai miei collaboratori. Trovo che contenga molte risposte alle domande che le circostanze della vita ci pongono”.
Anche l’assemblea Ubi del prossimo 20 aprile potrebbe sottotitolarsi così. Guerra alla vigilia e pace, magari dal 21, fermo restando che lei propende più per la componente se non proprio pacifica, almeno più conciliante…
“Non mi sentirà mai parlar male o criticare le altre liste. Ci hanno dato dei “provinciali”, ma io vorrei abbracciare chi l’ha detto. Io sono e mi ritengo a tutti gli effetti un provinciale. Il provinciale è uno che si alza presto la mattina e comincia a lavorare. E’ una persona magari semplice, ma proprio per questo indisponibile a compromessi, una persona concreta. In questi termini un provinciale a capo di ogni azienda o di ogni banca sarebbe auspicabile”.
Una particolarità positiva delle altre due compagini in lizza?
“Gli attuali amministratori sono professionisti che meritano rispetto. Per quanto riguarda la lista “Ubi Banca – Ci Siamo”, va riconosciuto il merito di aver contribuito a smuovere le acque e a tenere desta l’attenzione sul futuro destino di Ubi”.
Forse le acque sono state smosse un po’ troppo…Non trova?
“Jannone ha promosso un’ iniziativa, su cui si pronunceranno le competenti autorità. Circa le procedure di validazione delle liste la Banca si è già espressa”.
Lei è un “volto nuovo”, il suo nome ha cominciato a circolare solo da poche settimane. Il capolista designato per questa terza lista era il rettore Paleari. Cosa è successo?
“Deve chiederlo a lui, non a me”.
Non pensa che lei e la lista che guida vi siate fatti conoscere un po’ poco?
“Abbiamo promosso diversi incontri territoriali, fatto interviste e un video che abbiamo postato su internet. Aggiungo anche che i costi delle sale convegno dove si sono tenuti gli incontri pubblici sono stati sostenuti ripartendo l’importo tra tutti i 18 candidati. Non abbiamo grandi elettori che pagano per noi”.
Perché solo 18? Non avevate altri 5 nomi per completare la compagine?
“Siamo 18 perché lo statuto ci consentiva di presentarci in 18, ma è necessario promuovere rapidamente una revisione che consenta di ridurre significativamente il numero delle poltrone. Ventitrè consiglieri di sorveglianza significano due milioni e passa per le indennità di carica… Da questa assemblea deve arrivare un messaggio forte per tutti, a cominciare da chi occupa determinate posizioni”.
Posso chiederle: “Chi glielo ha fatto fare?”
“Nessuno. Mi è stato prospettato di guidare una compagine di persone rispettabili e professionalmente valide e ho accettato di farlo, mettendo a disposizione competenze ed esperienze maturate sul campo, ma ad una condizione: che tra tre anni si possa ritornare a “casa”. Nel mio caso significa in Università, dai miei studenti e dai miei bambini. Sarà un’esperienza a termine”.
Che triennio sarà il prossimo per Ubi?
“Difficile, non solo per Ubi ma per tutto il sistema bancario italiano che rischierà di fare la parte del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro”.
Può spiegare?
“Il quadro economico è critico. Dobbiamo convivere con gli effetti dello scoppio della bolla finanziaria di 5 anni fa che continua a condizionare i mercati e gli intermediari. In questi anni, gli impieghi sono cresciuti più della raccolta, cosa che è avvenuta anche per Ubi. Per il momento questa situazione è temperata dal sostegno della Bce che ha operato rifinanziamenti straordinari a tre anni, prestando denaro a tassi molto bassi. Una provvista che le banche hanno utilizzato per “tappare” gli scompensi del loro modello di intermediazione e non per sostenere l’economia reale. Questo è il metadone delle banche, che finirà tra un anno. Le banche vedono avvicinarsi un periodo di verifica che potrebbe rivelarsi potenzialmente drammatico”:
Altri aspetti critici?
“La proliferazione degli sportelli, una capillarità che sta soffrendo l’utilizzo crescente delle banche on line e poi il problema dei problemi: quello di un’economia reale che non cresce e non innova, che non dà sviluppo, ma accumula sofferenze. Anche in Ubi, vanno ristabiliti criteri di profittabilità e di merito che, in passato, sono stati applicati a corrente alternata”.
Ubi è una banca con un sistema di governance duale che altri istituti hanno abbandonato…
“E’ un modello che, se non nasce come espediente per moltiplicare le poltrone, può funzionare bene purché, appunto, sia declinato in modo corretto. Il Consiglio di gestione deve essere composto da manager che day by day sappiano mandare avanti la banca seguendo gli indirizzi del consiglio di sorveglianza. Ma attenzione, tra i due organi ci deve essere una separazione netta, non un ascensore che, ad ogni triennio, riporti al piano di sopra o a quello di sotto le stesse persone. A prescindere dalle persone che ne hanno fatto parte”.
Altra peculiarità di Ubi: è una banca federale…
“Anche questo è un elemento valido, se utilizzato correttamente. L’autonomia, però, deve essere vera e non di facciata e soprattutto non può valere per tutte le banche rete… Alcune possono godere di una maggiore autonomia rispetto ad altre. E’ un modello vitale che non può, ad esempio, rimanere inceppato da meccanismi interni, forniture e procedure che possono minare la produttività”.
Per quale motivo un socio dovrebbe votare la sua compagine?
“Per un motivo che non mi stanco di ripetere: l’indipendenza. Tutte le 18 persone che si sono candidate per “Ubi Banca popolare!” fanno un altro mestiere e possono tornare a farlo in qualsiasi momento. Questo non ci rende ricattabili, non abbiamo bisogno di grandi elettori e confidiamo molto nella capacità di giudizio delle singole persone. Non compriamo voti a pacchetti e non accendiamo mutui e debiti con nessuno. E poi vorrei sottolineare altri elementi dalla professionalità dei suoi componenti, alla presenza femminile e di gente che saprebbe operare già dal primo giorno con una conoscenza dei meccanismi bancari”.
La sua compagine ha messo un punto esclamativo accanto all’aggettivo popolare: quale il senso di questo segno di interpunzione?
“Più che altro, è un segno di fermezza sulla componente realmente popolare e cooperativistica di Ubi che intendiamo mantenere assolutamente. Andando a ritroso di qualche mese, invece, si intravedono aperture delle altre due liste alla trasformazione in spa: mi chiedo quali possano essere i reali interessi in gioco. Siamo l’unica lista che, nella presentazione delle candidature, non ha fatto ricorso al 5 per mille del capitale della banca. Proprio perché non vantiamo grossi capitali , siamo in grado di guardare al benessere di Ubi in un’ottica di lungo periodo. La cooperazione va difesa nei fatti, solo così si può convincere la gente della validità di questo modello. Non è una professione di fede vuota, non significa inchinarsi ad un dogma”.
Il suo dogma qual è?
“Si compone di tre parole; austerità, esempio e regole. Ubi ha chiesto, in questi anni, un forte sacrificio ai suoi clienti e ai suoi dipendenti, con una riduzione degli organici, effettuata talvolta anche in modo indiscriminato, che ha messo in crisi le filiali e la qualità del servizio erogato alla clientela. In una situazione come questa, dobbiamo fare ritorno al futuro”.
In che senso?
“Attingendo alle energie migliori delle vecchie banche locali e rimettendo al centro le persone. E’ uno slogan dozzinale e irritante, da campagna elettorale, se non si dice come si intende farlo. Si fa con l’esempio e il sacrificio personale e diretto del top management e degli organismi di governo della banca. Le persone devono tornare ad essere orgogliose di lavorare per Ubi. Con due milioni di euro risparmiati  non si fa il conto economico, ma se questi soldi vanno magari ad un intervento di welfare proprio per i dipendenti ecco che può cominciare a ricrearsi un circolo virtuoso. Il messaggio deve arrivare forte e chiaro anche all’ultimo sportellista della piccola filiale di confine “o si cresce tutti insieme oppure nessuno cresce più”. Si deve tornare a far parte tutti di un’unica, grande comunità aziendale senza più bresciani, bergamaschi o varesini…”.
A proposito, lei è un bresciano che ha lavorato a Bergamo. Nel caso dovesse vincere metterebbe un bergamasco a capo del Consiglio di gestione?
“Queste divisioni territoriali sono strumentali e messe in campo da chi vorrebbe derubricare la nostra lista e la proposta di cui siamo portatori come una sorta di folklore di un gruppo di bergamaschi che vorrebbe riscoprire, non si sa bene, quale orgoglio perduto. Il messaggio che viene da Bergamo e da Banca Popolare  è di grande attualità invocato dalle altre banche di rete che hanno altrettanti rimpianti di quelli che ho ascoltato nei miei incontri . Quanto al nome, sinceramente, non ci ho proprio pensato”