Referendum, perché anche Gori rischia il contraccolpo

Giorgio Gori
Giorgio Gori

Non c’è solo Matteo Renzi a guardare con attesa e trepidazione il fatidico 4 dicembre, giorno scelto per consentire agli italiani di dire cosa pensano della riforma costituzionale. Quella è una data dirimente. Il verdetto che uscirà dalle urne è in grado di modificare (in diverse gradazioni: dallo stroncare al rallentare) una carriera politica. Improvvidamente il premier lo ha detto ad alta voce dall’esordio della campagna elettorale: se perdo me ne vado a casa. Poi ha cercato di correggere il tiro, ma hai voglia di dire che la personalizzazione è un errore se poi vai in Tv tre volte al giorno a impersonificare le ragioni del Sì. Ed è quindi evidente che il 4 dicembre la stragrande maggioranza di chi andrà a votare darà un giudizio sull’operato del presidente del Consiglio, altro che sul bicameralismo paritario o sulle modifiche del titolo V.

Ma quel giorno potrebbe subire uno scossone, positivo o negativo, anche la carriera del sindaco di Bergamo. E che c’azzecca direte voi? C’azzecca eccome, invece. Perché Giorgio Gori, al di là delle smentite ufficiali che come sempre sono utili ad incartare il pesce, ambisce a lasciare Palazzo Frizzoni per lanciare la sfida al presidente della Regione Roberto Maroni nelle elezioni che si terranno nel 2018. Basta osservare le sue mosse degli ultimi mesi per scacciare qualsiasi dubbio. Le comparsate televisive (le vecchie amicizie vengono utili), le esibizioni canore in piazza a Cremona con i collegi sindaci di Brescia e Cremona, la “finta” polemica con Renzi sulla mancanza di un Patto per la Lombardia. Indizi precisi e concordanti che, direbbe un avvocato, costituiscono più di una prova. E d’altra parte, ad adiuvandum, non è stato lo stesso Umberto Ambrosoli (già impalpabile sfidante di Maroni nel 2013) a dire che la prossima candidatura a Palazzo Lombardia se la giocano Giorgio Gori e Maurizio Martina?

La strada, insomma, è tracciata. Se non fosse che di mezzo c’è quel maledetto (o benedetto) 4 dicembre. Domanda: se al referendum vincesse il No, cioè se Renzi prendesse una bastonata in testa, che ne sarebbe delle ambizioni goriane? Sarà utile chiederselo perché, al di là delle iniziative personali e della considerazione di cui gode per il suo lavoro a Bergamo, per arrivare ad ottenere la candidatura Gori può far leva solo sul sostegno di Renzi e dei suoi seguaci. È la classica situazione in cui i latini ricorrevano all’icastico “simul stabunt, simul cadent”. Se cade il primo, crolla anche il secondo. Non ci vuole una grande immaginazione a prevedere che se dovesse prevalere il No (ad oggi più probabile che possibile) nel Pd si scatenerà una faida con morti e feriti. Primo fra tutti il premier. E con lui collaboratori, amici, cortigiani e cortigiane di infimo livello di cui, alla faccia della rottamazione innovativa, in soli due anni ha riempito luoghi di governo e sottogoverno.

Le ricadute sarebbero immediate sia in Lombardia che a Bergamo. Dove, al netto di un consenso di facciata che gli tributano nelle sedi ufficiali, molti esponenti di punta del Pd non nutrono nei confronti di Gori una soverchia simpatia. L’uomo è intelligente, scaltro, abile nel tessere relazioni e strategie. E indubitabilmente sta facendo un discreto lavoro a Palazzo Frizzoni, pur se sbilanciato sui grandi progetti (in larga misura privati) più che sulla quotidianità e con l’altrettanto innegabile aiuto della buona sorte che fa venire a maturazione proprio in questi mesi interventi lungamente attesi. Ma la sua tendenza ad accentrare tutto su di sé, in questo molto renzianamente, è motivo di insofferenza trattenuta a fatica. Senza trascurare qualche uscita a vuoto, come quella della democrazia ad uso solo dei colti post Brexit, che ha fatto venire qualche dubbio sulle sue capacità politiche. Ciò detto, in politica pregi e difetti contano relativamente. Rilevano i rapporti di forza, piuttosto. E allora un Renzi azzoppato (no, non uscirà di scena nemmeno in caso di sconfitta, l’uomo è troppo ambizioso per rassegnarsi a tornare a Rignano sull’Arno) determinerà un bel caos dentro il Pd con l’altrettanto facilmente prevedibile riposizionamento di correnti e correntine. Che ne sarà di Gori a quel punto? La risposta è vicina. Basta solo aspettare un mese.