Quel che ancora non è chiaro del fenomeno Sharing economy

airbnb - sharing economy - turismoLa sharing economy – l’economia della condivisione, con una traduzione forse troppo politicamente corretta, sviluppata intorno a Internet – è considerata il fenomeno emergente dell’economia globalizzata perché presenta alcuni elementi di grande interesse per la clientela: costi bassi se non nulli, comodità, flessibilità, mancanza di intermediari. Ma ad una forte capacità attrattiva, corrispondono un minimo impatto sull’economia, diversi problemi e qualche perplessità sulla sostenibilità del modello.

Start up attive nei servizi di mobilità – da Uber a Car2Go o Enjoy, nei servizi di affitto diretto di case vacanze come Airbnb, o nella ricerca di credito come – stanno strappando alte valutazioni, anche se hanno conti in rosso e danno solo promesse che gli utili arriveranno l’anno prossimo. Eppure, oltre a quello degli utenti, scatenano l’entusiasmo degli investitori. AirBnb ha raccolto tra quest’ultimi 100 milioni di dollari e viene valutata 25 miliardi di dollari. Uber, l’app per servizi di auto con conducente, sta avviando la raccolta di un altro miliardo con trattative che la stimano 70 miliardi di dollari. E la rivale di Uber, Lyft, è valutata 4 miliardi di dollari. Square, società di pagamenti mobili, ha guadagnato quasi il 50% nel primo giorno di quotazione arrivando ad una capitalizzazione di 4,2 miliardi di dollari. Che per inciso è il valore attribuito dalla Borsa a Ubi Banca.

Nonostante le paginate che le dedicano i giornali (che ricorda molto l’attenzione prestata alla New economy prima dello scoppio della bolla) e gli sguardi tra il timoroso e l’interessato che le prestano gli operatori tradizionali, la sharing economy incide però veramente poco sull’economia. Secondo uno studio del Credit Suisse, l’impatto sul Pil è stimabile nello 0,25%, nel caso che i servizi prestati dallo sharing economy siano utilizzato da un terzo della popolazione: potrebbe salire a un punto percentuale nel caso sia utilizzato dall’80% della popolazione.

Ma poi ci sono altri aspetti controversi. “Si sa poco sull’impatto che la sharing economy avrà sulla crescita e le implicazioni di lungo termine sul mercato del lavoro – osserva ancora il Credit Suisse -. Il concetto non è stato ancora completamente analizzato dal punto di vista delle nome legali e comportamentali da applicare”. Uber, ad esempio, è contestato dai tassisti tradizionali che vedono un nuovo concorrente e il punto di forza della loro battaglia è che la sharing economy non rispetta il regime di regolamentazione e di contribuzione e così ottiene un vantaggio competitivo sleale. Ma ci sono cause anche da parte degli stessi “tassisti alternativi” di Uber che chiedono il riconoscimento del loro status: se dovessero vincere, ed essere quindi pagati come i tassisti tradizionali, la sostenibilità del modello Uber sarebbe in pericolo. Del resto il vantaggio che pongono rispetto al modello tradizionale che vogliono destrutturare è proprio quello di una minore remunerazione, una forma di dumping che non riguarda solo i costi.

Nonostante tutto quello che si può sentire, il prezzo in molti casi è la base della scelta. Ma servizi low cost o addirittura gratuiti finiscono per ridurre il Pil, quando distruggono il settore tradizionale per creare un sistema basato su salari più bassi (o nulli) e minori protezioni. E’ vero che i soldi risparmiati da una parte possono essere utilizzati da un’altra e che il consumatore per sua natura tendenzialmente pensa più al suo interesse che a quello generale, ma chi ha la responsabilità dell’interesse collettivo qualche problema dovrebbe anche porselo.

 

 

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