Le parole sono una delle cose più importanti di una civiltà: chi controlla le parole controlla i pensieri della gente e li indirizza dove meglio crede. Per questo, più siamo ignoranti e più siamo indifesi, contro questa campagna di distorsione della realtà e del buon senso. Chi, più di ogni altro, si approfitta della nostra debolezza culturale è, per certo, il linguaggio della politica: da un uso semplicemente disinvolto di certi termini, credo di poter dire che si sia passati ad un uso psicologico delle parole. In un certo senso, introiettando nelle menti, non sempre lucidissime e quasi mai allenate, degli Italiani certi termini, si vuole abituare la gente ad accettare il significato che questi termini sottintendono. Manipolazione psicosemantica, la chiamerei. Facciamo qualche esempio. Partirei dall’origine stessa della nostra idea di politica, vale a dire dal termine ‘democrazia’. Sorvolo sul fatto che, ad Atene, la parola designasse semplicemente un sistema elettorale, basato sulle circoscrizioni: noi, oggi, siamo in Italia e possiamo serenamente considerare la democrazia come il governo del popolo.
Il problema sorge quando si parla, invece, di ‘aristocrazia’: questo termine, mercè la solita rivoluzione francese, che ha dettato le regole del nostro presente perfino a livello di vocabolario, ha, presso di noi, una sfumatura negativa. Lungi dal mantenere il suo nobile significato originario di “governo dei migliori”, la parola ‘aristocrazia’, a un dipresso, viene percepita come un governo di parassiti imparruccati che vivono di rendita, di dame con l’erre blesa e di effeminati cicisbei, che, se il popolo chiede pane, suggeriscono di dargli brioches. Viceversa, la vera ‘aristocrazia’ è precisamente quello che tutti domandano a gran voce, in questi tempi di Lorenzin: che i migliori si facciano avanti e che il merito e non il favore governi la baracca. Ne deriva che ‘aristocrazia’ non è affatto il contrario di ‘democrazia’, sibbene di ‘keirocrazia’, che starebbe per il governo dei peggiori, la peggiocrazia. Come dire che, quando governa il popolo, esso è perfettamente in grado di esprimere delle eccellenze e che nulla vieta ad una democrazia di essere anche un’aristocrazia: come vedete, le parole, talvolta, ingannano.
Lo stesso dicasi del sovrabusato termine ‘populismo’ che tanto pare piacere a giornalisti e politicanti vari, che ne felicitano ogni movimento politico che non gli garbi: la parola che, nel nostro vocabolario, sta ad indicare ciò che questi signori, palesemente ignoranti o in malafede, intendono con ‘populismo’ è ‘demagogia’. La ‘demagogia’ è l’arte di trascinare le masse popolari, illudendole o assecondandone gli uzzoli. Il ‘populismo’, dal russo narodničestvo, è una forma particolare di socialismo, sviluppatosi nel XIX secolo e che, perfino nelle sue forme più moderne, come il Peronismo, ha mantenuto la sua valenza socialisteggiante, attribuendo al popolo una specie di aura mistica di positività e purezza. Oggi, invece, usare ‘populista’ come sinonimo di fascista, almeno nei talk show televisivi, è prassi comune: laddove, in primis, se c’è una matrice populista, essa va ricercata, storicamente, a sinistra e, in secundis, quanto a promettere a vanvera paradisi sociali e ad accarezzare il pelo della gente, mi pare di poter dire che, in casa nostra, i veri professionisti abitino nei palazzi del governo, più che nei covi degli squadristi.
Ma veniamo alla psicosemantica più subdola, perché più grave e vitale è la questione che essa sottende: gli immigrati. Invariabilmente, nei dibattiti di ogni ordine e grado, i giornalisti ed i politici di indirizzo governativo si guardano bene dall’usare altro termine che ‘profughi’ per indicare gli immigrati, mentre i loro antemurali parlano solo e sempre di ‘clandestini’: si tratta di due sciocchezze uguali e contrarie o, se preferite, di due malefedi contrapposte. I profughi sono una precisa categoria di emigranti, sancita, riconosciuta e protetta dal diritto internazionale, ossia persone costrette ad abbandonare la propria terra e la propria patria in seguito a eventi bellici, o a persecuzioni politiche o razziali: questo e non altro significa la parola ‘profugo’, in inglese refugee. Per contro, il termine ‘clandestino’, giuridicamente, neppure esiste: come dire che, dalla legge italiana, i clandestini non sono nemmeno contemplati. Per solito, si indicano come clandestini i cosiddetti “immigrati irregolari”, gli overstayers del diritto anglosassone, vale a dire persone che rimangono nel nostro Paese a visti scaduti o senza autorizzazione e senza documenti.
Va da sé che la stragrande maggioranza degli immigrati irregolari, che sono l’argomento di furiosi scontri televisivi, oltre che cospicua fonte di guadagni per la solidarietà pelosa delle cooperative, è rappresentata da persone che non sono né profughi né clandestini. E, allora, perché i ciarlatori professionali abusano di questi due termini? Semplice: per la solita psicosemantica. Profugo ti fa pensare a bambini con gli occhioni sgranati, a mamme avvolte in stracci, a poveretti in fuga dall’ecatombe. Mica a giovanottoni ben in carne, con telefonino e cappellino da baseball. Il profugo è un potente elemento di pathos e di commozione. Invece, il clandestino ti fa pensare a qualcuno che, subdolamente, si annidi nella stiva, per non pagare il biglietto: ad una precisa volontà di ingannare e di aggirare la legge, non a un povero Cristo che cerca una vita migliore. E’ una guerra, cari lettori: una guerra di parole, combattuta con ogni mezzo allo scopo di manipolare ed indirizzare il nostro consenso. E lo scopo, in fondo, è il più squallido e triste: permettere ai peggiori di rimanere in sella, a scapito dei migliori. E’ questo mercato delle vacche, in fondo, che chiamano ‘democrazia’.