Qualche giorno fa, durante una passeggiata in un parco della città, non ho potuto fare a meno di notare una scena, che mi ha divertito molto: due bambini, di sicuro fratelli, mentre giocavano tra di loro, hanno cominciato a bisticciare e il più grande, esasperato dalla situazione, a un certo punto ha esclamato “alura? mochela! “. La loro mamma, intenta a leggere un quotidiano, ha interrotto immediatamente il suo rilassante passatempo e, inorridita da quello che aveva appena ascoltato, ha strillato “Ma come parlate? Anche il dialetto adesso…”. Mi è venuto da ridere, soprattutto per il tono mesto e drammatico delle sue ultime parole, che avevano il sapore di una terribile sventura piombata improvvisamente sulla sua famiglia. Avrei voluto tranquillizzarla e dirle che non era successo niente di così grave e che nella maggior parte dei casi il dialetto non rappresenta una minaccia per l’apprendimento corretto della lingua italiana, (figuriamoci una o due parole) ma considerato che “un bel tacer, non fu mai scritto”, ho preferito continuare la mia passeggiata. Di sicuro però sono ancora in molti a credere il contrario. In realtà, quando si è bambini, si possiede tutto un ventaglio di risorse in grado di sviluppare un perfetto bilinguismo italiano-dialetto al pari di un completo bilinguismo italiano-inglese. Questo per tranquillizzare le madri convinte che parlare il dialetto porti sempre e solo sulla strada dell’analfabetismo lessicale. Anzi se proprio vogliamo dirla tutta, studi recenti hanno dimostrato che chi fin da piccolo è abituato a parlare due lingue, è più veloce nel “cambiare registro” e quindi vanta una maggior facilità nell’apprendere altre lingue. Quindi almeno per il momento, emergenza rientrata.
Caso mai il problema si pone se in casa il bambino non ha ricevuto sufficienti stimoli a parlare un italiano corretto, soprattutto in caso di genitori che sono abituati a parlare in dialetto e che tentano di parlare in italiano con i loro figli, commettendo spesso una serie di errori grammaticali difficili da sradicare. Ciò ovviamente genera confusione e per ogni bambino diventa difficile distinguere le strutture dialettali da quelle italiane. E lo sarebbe anche per un adulto. Ma in tutti gli altri casi è giusto ri-conoscere che i dialetti sono un patrimonio che accomuna milioni di persone e che piaccia o meno, fanno parte della cultura del paese e rappresentano una viva e spontanea espressione linguistica socio-culturale, che si può decidere di non praticare o di ignorare, ma non disprezzare. E continuare a credere che il dialetto sia un brutto ricordo di quando si era poveri o di quando l’Italiano era la lingua delle persone istruite, non significa solo pensare in maniera classista, ma anche e soprattutto commettere un imperdonabile errore. Insegnare ai propri figli qualche parola in dialetto è un gioco, che genera curiosità e divertimento e rappresenta un viaggio divertente alla scoperta di parole e dei loro significati, che si stanno inevitabilmente perdendo. Ma soprattutto non è un ostacolo per imparare l’italiano.
Quindi se oggi ascoltiamo qualche bimbo o qualche ragazzino utilizzare espressioni in dialetto, non diamo avvio ad una crociata personale contro il bergamasco, al massimo preoccupiamoci di spiegare la differenza tra l’italiano e il dialetto. Se io ripenso alla mia infanzia, mi ricordo un periodo della mia vita dove utilizzavo qualche parola in dialetto bergamasco. Avrò avuto 9 o 10 anni e mi piaceva zittire i compagni di classe con l’esclamazione “fa sito!” o interromperli di sovente con l’espressione “delbù?”. Non so dove le avessi sentite, ma di una cosa sono certo: nessuno mi ha mai redarguito o fatto sentire in colpa. I bambini sono esploratori nati, curiosi e vivaci, devono scoprire, conoscere e sperimentare e se sulla loro strada incontrano il bergamasco, non demonizziamolo, ma raccontiamogli che era la lingua dei loro nonni e bisnonni.