Dottor Bergamaschi,
la leggo spesso e ho sentito il bisogno di farle pervenire il mio disagio crescente.
Mio figlio ha 20 anni, un diploma di ragioneria conseguito nel 2012 e non ha mai lavorato un giorno in vita sua. Sostiene che il lavoro lo cerca, ma non lo trova e ultimamente ha cominciato ad alzarsi tardi alla mattina ed è sempre molto nervoso.
Come madre sono preoccupata e la mia apprensione si è accentuata ulteriormente da quando ho visto una trasmissione sul fenomeno dei Neet, giovani alla deriva che non hanno speranza per il futuro.
Che possiamo fare noi genitori?
Una madre disperata, Bergamo
All’inizio erano soprannominati “mammoni” o “bamboccioni”. Poi per qualcuno sono diventati semplicemente i “fannuloni” e i “lazzaroni”. Comunque sia, la sostanza non è cambiata: sono tutti appellativi poco simpatici utilizzati per indicare quei giovani che fino a tarda età non riescono a rendersi economicamente indipendenti dai propri genitori o a costruirsi una quotidianità caratterizzata da autonomia e progettualità.
Oggi gli economisti e i sociologi li chiamano Neet, che è l'acronimo inglese di "Not (engaged) in Education, Employment or Training" e indica quelle persone tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnate nel ricevere alcuna istruzione o formazione, che non hanno un lavoro, né sono occupate in altre attività assimilabili come i tirocini o i lavori domestici. E per l’Italia non ci sono buone notizie: nell’ultima rilevazione Istat è stato necessario cambiare il campione di riferimento dei Neet, aumentandolo da 29 a 34 anni; sono infatti sempre di più coloro che dopo aver superato la soglia dei 30 anni, continuano a vivere sulle spalle dei genitori come eterni adolescenti. Un dato sconcertante se pensiamo che fino a qualche tempo fa, i 34 anni segnavano la nascita del primo o del secondo figlio, una promozione lavorativa o l’acquisto della casa definitiva; tutto merito o difetto della “famiglia” che in Italia rappresenta il vero ammortizzatore sociale, ma che in moltissimi casi non aiuta il giovane a diventare adulto. Nel resto d’Europa se un giovane è disoccupato, può contare su un sostegno al reddito e su politiche attive, che lo aiutano a trovare un impiego e, non per un ultimo, su un supporto propositivo della famiglia, che lo sprona a migliorare la propria vita. In Italia è diverso: non esistono strumenti efficaci di politiche attive del lavoro, si è quasi dimenticato il valore dell’impegno e della determinazione, chi perde il lavoro, torna a vivere con i genitori e chi un lavoro non l’ha mai avuto o cercato, continua a vivere alla giornata. Certo è che più a lungo si rimane Neet, più è difficile ricollocarsi e il risultato è un gruppo cospicuo di individui, che rappresenta una risorsa sprecata del Paese. E purtroppo il fenomeno cresce con la crisi e le storie di giovani in bilico tra speranze, fallimenti quotidiani e lavoretti mal pagati, sono all’ordine del giorno.
E la domanda, ormai sulla bocca di tutti, nasce spontanea: di chi è la colpa? Delle istituzioni che non sono in grado di offrire strumenti efficaci, utili alla collocazione professionale o delle nuove generazioni, che non posseggono la tempra e la motivazione necessarie e preferiscono vivacchiare, cullati dalla lamentela e dalla routine? Una risposta assoluta non esiste, forse il responso potrebbe essere “un po’ tutti e due”.
Da una parte la percentuale in continua ascesa di Neet, racconta molto della qualità e dell’efficacia dell’investimento (non) attuato per rafforzare le conoscenze e le capacità delle nuove generazioni e per preparare i giovani ad entrare nel mercato del lavoro; dall’altra una cultura tutta italiana che tende a legare i figli con un filo invisibile come per proteggerli da delusioni, fallimenti e frustrazioni, (dimenticando che fanno parte del gioco della vita), fa il resto.
Uscire dall’empasse si può, ma è necessario un radicale rinnovamento economico e sociale senza precedenti: in primo luogo è fondamentale riformare profondamente le politiche attive per il lavoro, i Centri per l’Impiego e le agenzie formative, dando loro una dimensione di natura nazionale: occorre infatti qualificare e monitorare in maniera diversa la formazione professionale, elargendo le risorse pubbliche solo a chi raggiunge dei risultati effettivi ed eliminando dal campo tutte quelle pseudo realtà che utilizzano i finanziamenti per organizzare percorsi formativi generici e poco professionalizzanti o per pagare gli stipendi ai propri dipendenti e le bollette della propria struttura. Poi è necessario proporre ai giovani una cultura nuova, attraverso la partecipazione ad attività di orientamento e di formazione breve, utili ad acquisire consapevolezza personale e professionale e competenze spendibili nel mercato del lavoro. Per qualcuno forse un’utopia, ma io spero di no. Chi mi conosce, lo sa, non è mia abitudine fare paragoni o peggio, essere ripetitivo, ma non posso non pensare al resto dell’Europa dove al giovane in cerca di prima occupazione e al disoccupato di ogni età, non solo vengono proposti moduli formativi, che consentono il conseguimento di una professionalità riconosciuta e in linea con le esigenze del mercato, ma sono anche accompagnati nella ricerca di un lavoro attraverso un efficiente servizio di intermediazione. Questo accade in Germania, Olanda e Danimarca, in Italia purtroppo no. Il risultato è che sempre di più le nostre città sono abitate da giovani senza ambizione e scoraggiati, che non hanno fiducia nelle istituzioni e in loro stessi e soprattutto che non pensano valga la pena lottare.
Anche la nostra città non fa eccezione: i Neet sono numerosi e accomunati dallo stesso destino: che sia per mancanza di risorse personali (volontà, motivazione, competenze) o per colpa delle istituzioni, sono persone private della capacità di scegliere e quindi esclusi dalle opportunità della vita. Io ne ho incontrate qualcuna, ho parlato con loro e ascoltato le loro storie; non posso e non voglio tirare conclusioni o giudicare la loro vita, ma alla luce delle nostre chiacchierate, mi permetto di dedicare loro un pensiero dell’artista Michelangelo Buonarrotti: "Il più grande pericolo per noi non è che miriamo troppo in alto e non riusciamo a raggiungere il nostro obiettivo, ma è che miriamo troppo in basso e senza accorgerci, lo raggiungiamo".