Tutti presi come eravamo a misurare gli effetti della Brexit, ci siamo persi che il presidente della Regione Roberto Maroni ha nominato, dopo nove mesi di interim per l’arresto di Mario Mantovani (a cui avrebbe fatto seguito, pochi mesi dopo, quello del consigliere Fabio Rizzi), il nuovo assessore alla Sanità. Forse qualcuno lo ricorderà: il governatore prima ci ha raccontato che avrebbe tenuto per un po’ l’incarico in virtù dell’importanza del settore e soprattutto alla luce della necessità di mettere in acqua la nave della nuova riforma sanitaria; e poi, si è lanciato nella promessa che avrebbe scelto una figura di alto profilo, non legata a questo o quel partito ma indipendente e capace di rilucere di virtù proprie. Tant’è che erano circolati diversi nomi, compreso pure quello dell’ex rettore dell’Università di Bergamo, Stefano Paleari.
Peccato fossero tutte fandonie, propaganda data in pasto all’opinione pubblica per cercare di far dimenticare la vergogna delle manette tintinnanti all’interno di Palazzo Lombardia. Il prescelto, infatti, alla fine è stato Giulio Gallera, tra i fondatori di Forza Italia a Milano, più volte consigliere a Palazzo Marino, capace nel giro di due anni di passare da sottosegretario in Regione alla Città metropolitana (2014) ad assessore al Reddito di Autonomia (ottobre 2015) ed ora al vertice del settore più delicato di quelli coordinati e gestiti nel capoluogo lombardo.
Senza nulla togliere alle qualità personali (pare sia molto simpatico e sfoggi discrete doti calcistiche nelle partitelle tra politici), la sua nomina altro non è che il frutto delle alchimie politiche (leggi manuale Cencelli), aggiornate ai rimescolamenti usciti dalle elezioni milanesi del 5 e 19 giugno scorsi. Il centrodestra ha perso, onorevolmente certo, la sfida ma nei rapporti di forza tra i partiti quello di Gallera ha quasi doppiato (20 a 11%) la Lega. E allora Maroni, con il fiuto di chi capisce come tira il vento (cioè contro la politica), non ha perso tempo e ha impalmato il buon Gallera. Con buona pace di promesse e annunci vari.
Chi si stupisce, tuttavia, sbaglia. Che Maroni non abbia una elevata statura politica ormai lo stanno capendo tutti. Di sicuro lo sanno da tempo i suoi concittadini di Varese dove, essendosi il governatore candidato alle ultime comunali (perse), gli hanno tributato poco più di 300 preferenze, non proprio da primato del mondo. Ma anche i leghisti avevano già dovuto prendere atto che mentre il cerchio magico e una parte della famiglia Bossi faceva il bello e cattivo tempo con le risorse della Lega lui beatamente pensava ad altro. E quando poi si è trattato di prendere in mano il volante del malmesso Carroccio, buon per i padani che si è fatto avanti in pochi mesi l’astro nascente Matteo Salvini perché altrimenti il Sole delle alpi si sarebbe trasformato in una stella cadente.
Alla guida della Regione più ricca e vivace d’Italia non ha saputo far altro che giochicchiare a centrocampo, rifugiandosi nel tatticismo politico della macroregione che verrà (ma quando mai?) e nel referendum sull’autonomia che nemmeno riesce a fissare. Nel frattempo, intorno a lui tutti i capoluoghi di provincia sono stati conquistati dal centrosinistra (ultima roccaforte caduta proprio quella di Varese, e qualcosa vorrà pur dire…). E così che oggi appare accerchiato in uno scenario in cui da possibile leader si è risolto ad essere un comprimario. Come dimostra la nomina di Gallera. Eppure, proprio le elezioni di Milano avevano dato un segnale chiaro, visti i consensi ottenuti da una figura come quella di Stefano Parisi. Forse Maroni nel leggere quel risultato si è dimenticato i suoi celeberrimi occhiali rossoneri. O forse, a dispetto di una proclamata diversità, anche lui è figlio di quella politica politicante che giorno dopo giorno continua imperterrita a scavarsi la fossa da sola.