La morte di Buonanno e l’umana pietà ormai perduta

La morte di Buonanno e l’umana pietà ormai perduta

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Gianluca Buonanno
Gianluca Buonanno

Parce sepulto, scrivevano i nostri antenati, tanto più saggi, tanto meno incarogniti dalla miseria in cui ci tocca di rivoltarci, come porci in brago. E chiosava lo zacinzio, alla maniera sua, che era un po’ pallosetta, ma, alla fine, rimaneva impressa: dal dí che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose…E tutto questo voleva dire che, se è ben lecito dare addosso al nemico, con la spada o, se di necessità, con il coltello, una volta morto se ne deve avere pietà. Umana pietà, intendo. Perché un vivo è un vivo: può nuocere, ribellarsi, difendersi. Ma un morto non può far più nulla, se non suscitare nei propri cari strazio e nostalgia ed infinito rimpianto. Chiunque sia il morto, fosse pure stato, da vivo, l’uomo peggiore che abbia calpestato la terra, il senso dell’onore ed il rispetto per i suoi familiari – che anche i demòni hanno mamme, e spose e bambini dagli occhi stellanti – impongono di astenersi dall’insulto e dallo scempio. Va da sé che queste leggi bimillenarie, per avere efficacia, devono rivolgersi a chi abbia, se non il sentimento, perlomeno una vaga percezione di cosa siano l’onore e il rispetto: tutti coloro per i quali queste due parole sono soltanto il titolo di una ributtante serie televisiva non vengono considerati nel novero.

Scrivo queste cose sull’onda dello sdegno che mi ha preso, di fronte allo spettacolo immondo offerto dalla canea in occasione della tragica morte del politico leghista Gianluca Buonanno: un branco di sicofanti da tastiera, in nome di una democrazia e di un pacifismo evidentemente strabico fino alla smorfia, si è scagliato contro il defunto, coprendolo di contumelie ed inneggiando sconciamente alla sua scomparsa. Buonanno, va detto per onestà di cronaca, è stato spesso autore, da vivo, di dichiarazioni imbarazzanti, in tema di immigrazione, difesa personale e di altre questioni piuttosto sensibili. Anzi, per la verità, si è reso protagonista di uscite piuttosto riprovevoli e di sceneggiate davvero prive di eleganza. Ora, però, che è morto, umanità ed educazione impongono che subentri il cordoglio o, se proprio non si può fare di meglio, perlomeno il silenzio. Gioire o scrivere battute esecrabili su internet qualifica gli autori come una subumanità, ferma a principi civili trogloditici. E questo è apparso ai miei occhi: lo sfacelo di un sistema civile, a tutto vantaggio di una brutalità di sentimenti e di concetti che fa vergogna alla nostra gente e al nostro Paese. Perché anche la più meschina e barbara delle giustificazioni, ossia quella dell’occhio per occhio, cade di fronte alla superiore necessità di non infierire su di un caduto: di fermarsi ad un passo dalla camera ardente, dove è spazio solo per la morte e non per le miserie umane. Invece, perfino persone che dovrebbero avere la capacità di discernere tra ciò che è moralmente lecito e ciò che, invece, sconfina nella bestialità, hanno ballato sulle ceneri di questo poveretto: hanno riso e scherzato con ghigni di jena. Ed erano gli stessi che accendevano lumini, che disegnavano coi gessetti, che piangevano per la Francia e per il Belgio: come se ci fossero morti diverse e morti diversi, una volta superata l’orrenda soglia.

Bestie sono, non uomini: questo voglio dire, stanco di distinzioni, di discussioni, di inascoltabili motivazioni atte a giustificare atteggiamenti tanto dissimili in circostanze tanto definitivamente assimilanti. Bestie ben vestite, istruite, pettinate: bestie che distinguono sapientemente tra un romanzo di Canetti ed uno di Musil, come distinguono animalescamente tra un morto siriano ed uno palestinese, tra un annegato nel canale di Sicilia e Buonanno, schiantatosi in macchina vicino a Varese. Tutto questo è contrario ai principi che informarono la nostra civiltà fino dall’alba dei tempi: è un regresso che suona come la condanna della nostra epoca all’oblio che meritano tutti i periodi di barbarie. E ridere come pagliacci per la morte di un uomo deprecabile, se pure questo Buonanno lo sia stato, vuol dire diventare come lui, peggio di lui: vuol dire abdicare dalla propria umanità per farsi bestia. Bestia che cerca di ragionare e di spiegare la propria bestialità con le parole ed i concetti degli esseri umani, ma senza possederne il senso: proprio come la scimmia o il pappagallo, quando imitano gesti e parole dell’uomo, per pura mimesi. Ma che, dentro, rimangono scimmia e pappagallo. Insensibili perfino di fronte all’ultimo dei misteri.