Nemmeno il tempo di segnalare, amaramente, come nella ricca Bergamo manchino i mecenati (quantomeno del tipo di Giovanni Arvedi che a Cremona ha messo sul tavolo 12 milioni di euro per realizzare il Museo del Violino), e arriva la notizia della scomparsa di Mario Caffi. Una figura per tanti aspetti unica nel panorama cittadino, quella dell’avvocato d’affari spentosi la scorsa settimana.
Lui non era un mecenate, ma interpretava un ruolo non meno importante in una comunità: quello che gli inglesi definiscono del “civil servant”. Era cioè una persona che non si limitava a cogliere i copiosi frutti del suo lavoro e delle sue riconosciute capacità professionali, ma sapeva mettersi al servizio, in diversi modi e con vari ruoli, della società.
La vastità dei suoi interessi è stata ben riassunta negli articoli giornalistici che sono usciti in occasione della morte: lo studio professionale, l’Università, l’Atalanta, le grandi mostre, l’Aci, la Camera di Commercio, la Banca Popolare di Bergamo. Ma quel che forse merita di essere maggiormente sottolineato è altro. È la passione civile di un uomo che voleva un bene dell’anima alla sua terra senza perdersi in inutili e antistorici folklorismi, l’instancabile desiderio di aiutare i giovani a crescere, la capacità di affiancare con consigli disinteressati assessori e sindaci.
Com’è ovvio, la sua vita era concentrata soprattutto sul lavoro, i pareri legali per tante imprese, i contenziosi, le rogne da sbrogliare. Ma i suoi occhi si illuminavano quando parlava delle sue passioni. Lo sport (sci e Atalanta), la cultura (aveva guidato la società del Comune nel periodo delle grandi mostre), ma soprattutto la sua città. Che forse, se si fosse piegato a qualche compromesso, avrebbe anche potuto guidare come sindaco.
Ne avrebbe avuto le qualità. Una, soprattutto: l’equilibrio.
Che gli derivava da un’altra caratteristica non comune: la capacità di ascoltare. Aveva le sue idee, certo. Repubblicano fin da ragazzino, liberale per scelta e per intima convinzione, lontano dagli opposti estremismi, era attento alle ragioni di chi la pensava in modo diverso. E anche quando andava in contraddittorio con qualcuno lo faceva con parole arrotondate e, quand’anche fossero vivaci, mai contundenti.
Credeva nella libertà e la praticava con scelte controcorrente per un esponente dell’alta società (anche se lui si è sempre considerato estraneo). Credeva nel pluralismo, aveva la curiosità di conoscere chi usciva dal coro conformista di una città abituata a ricevere il Verbo dall’alto. E garantiva il suo sostegno, diretto e indiretto, incurante dei problemi che pure avrebbero potuto creargli.
Tutto questo per dire, lungi dall’erigere un monumento ad una persona che come tutti aveva anche i suoi inevitabili difetti (ma su questi si può esprimere solo chi gli ha vissuto o lavorato a fianco), che figure con queste caratteristiche non se ne vedono molte a Bergamo e dintorni. Specie nei mondi che erano quelli di Mario Caffi e che da sempre faticano a rinunciare ad un poco del proprio legittimo “particolare” a beneficio della comunità civile in cui vivono.
Lui ha dato un esempio. Altri potrebbero magari fare anche di più e meglio. L’avvocato per primo non ne sarebbe stato geloso. Anzi, proprio negli ultimi tempi era diventato pessimista. Guardandosi attorno, si era reso conto che in troppi ambiti della società bergamasca domina una certa mediocrità. Aurea, dirà qualcuno, ma pur sempre mediocrità. E il suo desiderio, anche con forze fiaccate, era di poter dare una mano a crescere nuove leadership. Ora che anche Caffi non c’è più, quest’esigenza si è fatta ancora più forte.