Alla televisione è stato intervistato un inglese, espressione della “ordinary people” o, come diremmo noi, della “ggente”, che ha votato “leave”, ma era disperato perché, quasi testuale, “non pensavo che avrebbe vinto”. Sono cose come queste che fanno ritenere che la vera grande riforma sarebbe ripensare il suffragio universale e inserire, in alternativa al limite anagrafico dei 18 anni per il diritto di voto, una soglia minima del quoziente d’intelligenza. Comunque sia, alla fine gli inglesi (e i gallesi) hanno deciso di andarsene spezzando l’Europa e lo stesso Regno Unito. Se non ci vogliono, come europei, i problemi maggiori se li sono procurati da soli e la cosa migliore sarebbe lasciarli andare al più presto. Ce ne faremo una ragione e, come in tutte le crisi – parola greca e quindi europeissima che vuole dire anche opportunità – c’è da auspicare che coglieremo l’occasione per passare, possibilmente con rapidità, da un’Unione europea a qualcosa che assomigli di più agli Stati Uniti d’Europa. Quel cambio di passo che il Regno Unito, a partire dal rifiuto dell’euro, ma anche con tante riserve, non ultima la richiesta (ottenuta) di una sorta di deroga su welfare solidale e immigrazione, ha dimostrato di volere frenare, più che ritenere un obiettivo.
Da un punto di vista economico, i danni peggiori li avranno gli inglesi, che ritengono di essere importanti per loro stessi, come se fossero ancora l’impero ormai dissolto da oltre mezzo secolo, e non perché sono (o erano) la porta dell’Europa. Le conseguenze ovviamente le avrà anche l’Europa, che però, soprattutto se coglierà l’occasione per una governance più efficiente, ha una maggiore forza per superare queste e le forze centrifughe emulatrici che si sono diffuse dopo il voto. Questo è infatti l’aspetto più paradossale. Il Regno Unito ha voluto uscire, nonostante l’Europa l’ammonisse che insieme si è più forti, perché non voleva che Bruxelles decidesse per lei. Adesso è il Regno Unito che dovrà ripetere quello che le diceva l’Europa a Scozia e Irlanda del Nord che non vogliono che Londra decida per loro.
La situazione che si è creata in poche ore sembrava fantascienza: tre milioni di britannici che chiedono di cancellare la Brexit, gli Scozzesi che vogliono di nuovo l’indipendenza per restare in Europa, Gibilterra che non vuole uscire dall’Unione e gli Irlandesi del Nord che vogliono riunirsi alla Repubblica di Irlanda, obiettivo al quale forse sono più vicini adesso che con tutti gli attentati dell’Ulster. Con la ciliegina di una proposta di secessione della stessa Londra, fedele al remain, dal resto del Regno Unito. E anche su questo c’è un effetto a cascata, che stuzzica le velleità separatiste. Se si lasciasse correre, si andrebbe verso una frammentazione jugoslava o una parcellizzazione che ricorda quella dell’Italia prerisorgimentale, quando per andare da Milano a Bologna, percorso di poco più di 200 chilometri che adesso con il treno Frecciarossa si fa in un’oretta, bisognava attraversare tre confini con rispettive dogane (quattro se si voleva arrivare a Firenze).
A questo siamo arrivati per una demente prova di forza di politica interna voluta dal dimissionario premier inglese Cameron, in un referendum assolutamente evitabile, e per una diffusa questione di identità distorta, mista ad una democrazia che va bene solo fino a quando viene deciso quello che piace. Tutto ruota intorno ad un’errata concezione della sovranità condivisa. Non è imposizione quando si partecipa a una decisione. Ed è quello che avviene ai Paesi, finora Regno Unito compreso, che fanno parte dell’Unione europea, dove diventa comodo scaricare la colpa su Bruxelles, dimenticando che le decisioni vengono prese collegialmente dai rappresentanti dei vari Paesi, Regno Unito e Italia compresi, così come al governo centrale di Roma le decisioni vengono prese insieme dai rappresentanti dei vari territori italiani. Per qualcuno però è imposizione la decisione che non viene condivisa, nel senso che non si è d’accordo. Allora si tende a ridurre il territorio fino a quando non si riesce ad avere una maggioranza della propria opinione, se non addirittura l’unanimità, che poi sarebbe la situazione ideale dove le decisioni non sono sentite come imposizione. Ma questo ridurrebbe gli Stati a dimensioni di condomìni (o anche meno). Lo si è visto anche in un quartiere cittadino, Borgo Santa Caterina, dove per la questione dell’asfaltura qualcuno ha parlato di imposizione del Comune di Bergamo. Si arriverà anche qui alla richiesta di indipendenza?