Il futuro di Ubi tra banca unica e “good bank”

Il futuro di Ubi tra banca unica e “good bank”

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Ubi bancaNel giro di una settimana, Ubi potrebbe varare la banca unica, con l’accorpamento delle sue sette banche reti, ma restare ancora una holding. Che l’assemblea del 14 ottobre vari la fusione appare scontato: è troppa la convenienza in termini di risparmi e di efficienza di gestione per fermare un’operazione che, se non ci fossero stati personalismi e qualche problema tecnico di assetto societario, di fatto risolti solo con la Spa, si sarebbe realizzata da anni. Ancora incerto è invece il fatto che ad aprile, a compimento dell’incorporazione a tre fasi dei sette istituti che sarà votata in assemblea, Ubi sia ancora una banca unica o non si trovi con altre controllate, ovviamente da fondere anch’esse, in prospettiva, una volta realizzata l’integrazione, prima di tutto dei sistemi informatici.

È ancora tutta da definire la trattativa per rilevare tre delle quattro “good bank” nate dalla risoluzione di un anno fa, ovvero Popolare Etruria, Banca Marche e Carichieti, lasciando perdere proprio quella Cariferrara che all’inizio sembrava potesse essere il primo obiettivo. Giustamente Ubi non vuole rimanere invischiata in un’operazione che presenta opportunità interessanti, a partire dal salto di qualità da istituto multiregionale a veramente nazionale con una copertura anche di aree ora deserte, come la Toscana, ma anche rischi non indifferenti. Quindi, se l’operazione procede lentamente, e forse non verrà realizzata, è perché prima è necessario vedere e valutare le carte. Questo vuole dire, essenzialmente, controllare la qualità dei prestiti e capire a quanto ammontano non solo le sofferenze presenti (ora relativamente poche, considerato che i quattro istituti sono nati a crediti inesigibili zero, ma dopo un anno già pericolosamente in crescita), ma anche e soprattutto quelle potenzialmente future. E poi ottenere adeguate garanzie e le compensazioni del caso, anche per i costi che comunque dovranno essere affrontati per la ristrutturazione e il rilancio di banche che, se un anno fa sono state costrette alla bancarotta, devono essere rivoltate anche dal punto di vista gestionale.

Alla fine il conto potrebbe essere anche negativo. Del resto siamo in tempi di tassi negativi dove il costo del denaro esiste per chi fa il prestito, più che per chi lo chiede. Quindi non deve apparire paradossale nemmeno che le operazioni sulle Good banks si profilino come acquisizioni dove chi compra non paga, ma viene pagato, anche se non necessariamente in contanti. Nel caso di Ubi si ipotizzano infatti opzioni contabili-normative, come un riconoscimento dell’avviamento negativo da parte della Bce, l’immediato utilizzo dei modelli interni per il calcolo degli attivi a rischio o un intervento del Fondo atlante che rilevi i crediti problematici.

Anche se con ogni probabilità un aumento di capitale potrebbe essere necessario per Ubi – si parla di 300-400 milioni – più per una ulteriore cautela prudenziale, che per finanziare l’eventuale operazione, l’acquisto delle tre banche inevitabilmente dovrebbe avvenire a prezzi molto contenuti. Del resto, non c’è la fila per comprare gli istituti, anche perché non sono molti i gruppi che potrebbero ricavare dall’operazione sinergie e prospettive di ritorno dell’investimento. Inoltre questa è un’operazione che può interessare Ubi, sempre a condizione, come ribadisce in tutte le salse  il Ceo Victor Massiah, che crei valore, ma interessa soprattutto il sistema bancario e non solo per il danno di immagine e di credibilità che può derivare dalla vicenda. Entro sei mesi, il Fondo interbancario di tutela dei depositi deve restituire il prestito da 1,6 miliardi organizzato da Intesa Sanpaolo, Unicredit e la stessa Ubi per assicurare le risorse essenziali al riavvio delle quattro banche. Difficilmente i proventi della vendita potranno assicurare un rientro integrale delle risorse immesse per consentire il salvataggio e questo apre alla possibilità che il sistema sia chiamato a registrare nuovi esborsi per riuscire a liquidare quella che a seconda dei punti di vista è una “patata bollente” o una “opportunità”.

Del resto quest’anno ci sono già state almeno due acquisizioni bancarie dove il cliente è stato pagato. Recentemente la bresciana Banca Valsabbina ha chiuso l’accordo per l’acquisto gratis di sette sportelli di Hypo Alpe Adria Bank Italia (incluso quello di Bergamo) e di un portafoglio di mutui «performing» di circa 150 milioni di euro, ricevendo in più una «dote», di importo non svelato – si ipotizza una ventina di milioni,  a compensazione della cessione del ramo d’azienda – a titolo di contributo di avviamento. In precedenza Barclays aveva pagato 237 milioni per cedere 89 sportelli, con 3 miliardi di mutui residenziali  a CheBanca!, del gruppo Mediobanca. E pensare che nel 2007 Ubi Banca aveva ottenuto 488 milioni di euro dalla cessione di 61 sportelli alla Popolare di Vicenza. Insomma si è passati in neanche dieci anni da una situazione in cui la vendita di uno sportello bancario fruttava 8 milioni di euro a una in cui bisogna pagare 2,6 milioni per cederlo. Dato che questi sono prezzi di transazioni avvenute e non di ipotesi si può ben capire come sia cambiata la mentalità del mercato e perché siano così depresse le quotazione dei titoli bancari, ormai trattati a frazioni del patrimonio netto tangibile, non solo perché la loro redditività è bassa, ma anche perché quello che un tempo era un valore, adesso è diventato un costo.

 

 

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