Le società primitive, ossia quelle non regolate da un diritto esplicito e condiviso e prive di una sorta di superiore necessità che investisse di autorevolezza indiscutibile le istituzioni e le regole (augeo, in latino, significa proprio ‘aumentare’: di qui l’idea di autorità), fondavano il rispetto di persone, cose o luoghi su dei tabù. In pratica, il diritto era sostituito dalle paure ancestrali o da un’idea magico-religiosa dei fenomeni, per cui determinate figure, certe attività, alcuni santuari, erano inviolabili, pena una maledizione o una punizione divina: anche il termine ‘sacro’ trae origine da questo oscuro periodo pregiuridico e significa, appunto, originariamente, ‘intoccabile’. Non vi preoccupate, non intendo tenere un corso accelerato di epistemologia: volevo solo farvi capire che il concetto, irrazionale e superstizioso, di tabù affonda le proprie radici nell’alba della nostra civiltà. Oggi, in quest’epoca clamorosamente ignorante, anticulturale e credulona, si sta tornando a ragionare per tabù: si stanno riproponendo forme di percezione della realtà che, con i comprensibili mutamenti, in fondo ricalcano il sentimento delle cose che caratterizzava l’uomo arcaico, il cittadino protostorico, il barbaro.
Nel nostro mondo, tanto evoluto quanto poco sofisticato, si stanno progressivamente accantonando le spiegazioni, a favore dei dogmi: la ragione a favore di un’irrazionale compartimentazione del lecito e dell’illecito, del giusto e dell’ingiusto, che non poggia su basi giuridiche o logiche, ma semplicemente su aspetti fideistici e superstiziosi. Su dei tabù, insomma. E’come se, oltre ad aver vinto la guerra delle parole, una certa parte della nostra società, adesso, pretendesse di abolire direttamente le parole, sostituendole con un sistema binario di luci che si accendono e si spengono: quando si toccano certi argomenti, si accende la lucina del tabù e si chiudono le orecchie e le sinapsi dell’ascoltatore. Accade, ad esempio, nel caso di questioni tanto controverse quanto divisive: gli orientamenti sessuali, l’immigrazione, il fascismo e l’antifascismo, la religione. L’atteggiamento di un uomo libero e civile, alla luce di duemilacinquecento anni di evoluzione (sia pure a strappi) del pensiero umano, dovrebbe essere quello di ascoltare, argomentare e decidere: se le idee di un altro paiono più documentate o convincenti delle sue, l’uomo civilizzato le accoglierà, in tutto o in parte, modificando di conseguenza la propria opinione. Nel caso inverso, egli sosterrà in modo vincente le proprie idee, contribuendo alla crescita e alla consapevolezza del proprio interlocutore. Almeno, dovrebbe andare così.
La sapienza e la saggezza dovrebbero insegnarci che l’idea di un bene assoluto o di un male assoluto, così come quella di un’assoluta verità, sono patetiche utopie, buone per l’astratta argomentazione filosofica: la civiltà si basa su di una sintesi tra le idee e la realtà, e non si può abolire il mondo reale, solo perché non coincide con le nostre idee. Viceversa, con buona pace di generazioni di pensatori, oggi ci si muove spesso per puri dogmi: per categorie fisse e prive di qualunque analisi, ed autoanalisi, critica: esattamente come nella società dei tabù, esistono aree di pensiero che sono proibite, pena la scomunica, l’isolamento o, peggio, l’aggressione, tanto verbale quanto fisica. E non c’è sopraffazione più intollerabile di quella che avviene in nome di una malintesa democrazia: nulla, ai miei occhi, appare più insensatamente brutale dell’impedire ad un altro di manifestare la propria opinione, in nome della libertà. Chiunque non colga questa insanabile contraddizione, mi dispiace dirlo, è un troglodita o, in subordine, un perfetto imbecille. E’intollerabile che, non appena qualcuno si discosti dalla vulgata, questi venga immediatamente catalogato come paria, omofobo, islamofobo, razzista, fascista e chi più ne ha più ne metta, sia che esprima concetti elevatissimi, sia che farnetichi, semplicemente per il fatto di non concordare con questo canone opprimente.
Il quale canone non gode neppure di padri nobili: non è frutto del distillato intellettuale di generazioni di grandi pensatori. Nasce da accozzaglie di luoghi comuni, di torbidi passaparola, di pulsioni inconsulte, di mode, di slogan da quattro soldi. Soprattutto, muove dalla manipolazione ossessiva del consenso, tramite il bombardamento ideologico, semantico, semplicemente lessicale: in pratica è una sintesi tra l’ipnosi di massa e la pubblicità. Perciò, vorrei che lo sapeste, quel che muove, nel nostro mondo, determinati atteggiamenti censori, certe prese di posizione, alcuni luoghi comuni del dibattito culturale e politico, è semplicemente un regresso alla civiltà primitiva, a quella religio (che significa ‘superstizione’) che, nelle parole del grande scrittore latino Lucrezio, con i suoi tabù ed i suoi anatemi, è in grado di produrre catastrofi. Ci era arrivato un poeta del primo secolo avanti Cristo, e noi ce ne stiamo progressivamente dimenticando: se questa è civiltà!