Finalmente l’Ateneo “pesa”, ma ora facciamo concorsi pubblici più seri

Finalmente l’Ateneo “pesa”, ma ora facciamo concorsi pubblici più seri

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Università EconomiaSiamo alle solite, sempre alle solite: realtà e teoria. Un pochino mi sono stufato di scriverlo e immagino che anche voi, a forza di leggerlo, sì, insomma…Eppure è così: ci sono due italie, l’una contro l’altra armata. Una vive nel mondo dei fenomeni: si scontra con l’inefficienza, l’incongruenza, l’ingiustizia, che dominano anche le mignole questioni di questo povero Paese. L’altra, invece, si libra nel mondo astratto: per lei la realtà non esiste o, al massimo, è un prodotto dello spirito, plasmabile con atti di volontà o, più spesso, di velleità. Ma ve la faccio più semplice: qui c’è un sacco di gente che non vuole vedere le cose come stanno, e che preferisce chiudere gli occhi e viaggiare con la fantasia, piuttosto che chiudere le mani a pugno e battersi per un futuro migliore. Ad esempio, è recentissima la proposta, che, una volta tanto, vede d’accordo centrosinistra e centrodestra, di tenere conto, tra tutti i mille altri parametri di valutazione nei concorsi pubblici, anche dell’ateneo in cui ci si è laureati: insomma, un 110/110 preso a Chissadove varrebbe meno di un 97 strappato a Guardaunpo’. Per la verità, non è chiaro come una proposta di emendamento alla legge quadro si sia trasformata in un caso da pugnale tra i denti, tuttavia, da cronista lo rilevo e da docente ci faccio sopra un paio di considerazioni.

 

Comincio col dire che sono del tutto a favore di un simile provvedimento: ho constatato a mie spese, più di una volta, che voti di laurea stellari e risultati accademici eclatanti erano frutto di meschine pastette e di maniche larghissime. Sono d’accordo, anche se so benissimo che questo emendamento non passerà mai, nella forma suddetta: nel caso, verrà depotenziato ed aggiustato in modo da renderlo del tutto ininfluente. Aggiungo che, in trent’anni di cattedra, concorsi, convegni, conferenze e dopo aver scritto qualche libruccio qua e là, un tantino mi sento autorizzato ad esprimere un’opinione sulla vexata quaestio. E io la esprimo: tra un’università e l’altra, tra un corso di laurea e l’altro, esistono differenze talmente abissali da rappresentare degli autentici valori scalari, di cui tener conto. Perché non è possibile che i vertici di certe graduatorie siano intasati da aspiranti docenti con voti di laurea altissimi e che, una volta insigniti della docenza, costoro si dimostrino capre totali, di quelle che scrivono “innoquo” e “collocquio”. Guardate che non sto scherzando e non esagero: la settimana scorsa, indossavo una maglietta che mi ha regalato il mio amico Luca De Carlo, sindaco di Calalzo di Cadore, con su scritto: “Io amo Calalzo!”. Orbene, uno di questi cosi da lode, abbraccio e pubblicazione, serio serio, mi ha domandato: scusa, collega, ma chi è ‘sto Calalzo? Capito bene?

In Italia, mercè una tradizione cinquantennale di scempi culturali ed educativi, si è arrivati a ritenere la scuola migliore quella che ha il maggior numero di promossi: il criterio, evidentemente, si è trasferito alle università. Così, oggi, ci sono atenei che toccano livelli da scuola dell’obbligo. E studenti universitari che, in sede di esame, ti raccontano che Leopardi è vissuto nel XIII secolo: e anche qui non sto scherzando, ma mi riferisco all’Unibergamo, mica al Burkina-Faso, anno domini 2015. E il fronte dei contrari e degli incazzati chi raduna? I rettori, che temono un drastico calo dei finanziamenti. La Cgil, che è contro qualunque forma di meritocrazia a prescindere. Qualche meridionalista irriducibile, di quelli che citano il Gravina quando gli parli dei problemi dell’oggi. Questi e moltissimi altri, che parlano di classismo o, peggio, di antimeridionalismo. Già, perché le migliori quindici università italiane sarebbero tutte al nord: io trovo, per converso, più sensibile il dato secondo cui le quindici peggiori sarebbero tutte al sud, da cui proviene la maggioranza dei centodieci e lode.

Analizziamolo questo benedetto dato: se gli studenti che vengono dagli atenei considerati peggiori hanno i voti migliori, mi pare se ne possa dedurre una semplice ed aurea regoletta, ossia che il voto di laurea non deve essere l’unico parametro per giudicare le capacità di un neolaureato. Almeno secondo logica: perché, poi, interviene quell’assoluta assenza di senso della realtà che caratterizza la metà del Paese che ci zavorra e ci sta affondando. Va da sé che le università dovrebbero essere tutte di pari livello e i loro titoli del tutto equivalenti: solo che non è così. Sarebbe bellissimo che fosse così: la realtà, però, torno a dirlo, è diversa dalle astrazioni dei mastri pensatori. Ridicolo, infine, mi pare un commento secondo cui questo emendamento finirebbe col penalizzare uno studente bravissimo ma meridionale: mi limito a notare che, evidentemente, per lo stesso ragionamento, oggi è inevitabilmente penalizzato il bravissimo studente settentrionale. Non si potrebbe tener conto di entrambe le cose, tanto per non penalizzare nessuno. E, magari, fare dei concorsi seri e uguali per tutti, tanto per non favorire questo o quello? Così, il bravissimo studente meridionale e il suo equivalente settentrionale potrebbero dimostrare all’universo mondo la loro bravura. E la scuola italiana si ritroverebbe degli insegnanti che, del nord o del sud, garantirebbero almeno il rispetto dell’ortografia.

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