E se ripristinassimo il servizio di leva per difenderci dai terroristi?
Quando facevo la naja, circolava nelle caserme italiche un ameno librettino, dedicato all’eventualità di un attacco termonucleare. Erano tempi di ‘guerra fredda’ e la possibilità che a qualche simpaticone, da una parte o dall’altra della cortina di ferro, venisse l’idea di mandare il mondo a catafascio era meno peregrina di quanto non sia oggi: così, con bello spirito d’iniziativa, qualche generale, in qualche ufficio romano, aveva concepito questo simpatico vademecum. Va da sé che sapevamo tutti quanti che, per quanto impermeabile e refrattario al freddo e alla fatica, anche un battaglione di alpini, se opportunamente felicitato di qualche chilotone, tende ad andare a remengo: diciamo che le contromisure indicate dal librettino servivano, più che altro, a farci affrontare allegramente la morte. C’era scritto, ad esempio, che, in caso di detonazione di un ordigno atomico nei paraggi, avremmo dovuto defilarci lungo i muri maestri (che nessuno avrebbe saputo distinguere da quelli normali), tenendo una fetta di limone in bocca. Inutile dirvi che questa cosa di essere inceneriti travestiti da gin tonic, mentre cercavamo i muri maestri della caserma “Battisti”, ci rendeva molto meno gravosa l’idea di un’improvvisa dipartita. Questo solo per dire che ad ogni mossa del nemico dovrebbe corrispondere una contromossa: e che questa contromossa non dovrebbe avere carattere, per così dire, grottesco, sibbene efficace, realizzabile e, soprattutto, atto a contrattaccare: quello della buccia di limone è solo un aneddoto, ma credo renda l’idea della vanità di certe contromisure.
Oggi, viviamo nell’incubo di un’altra guerra fredda: un esercito di spietati assassini, indottrinati ed attivati da una struttura internazionale e da chissà chi altro, è pronto a colpire duramente, insidiosamente e senza alcuna pietà, in un punto qualsiasi dell’Europa. Alcuni di questi killer sono poco più che dementi, cui è stato inculcato il pensiero fisso del martirio, ma, per quanto dementi, non ci si deve fare ingannare: sono pericolosi ed operativamente significativi. Il Califfato o chi per lui non ha alcun bisogno di addestrare kamikaze: si limita ad offrire un brand, un’impresa, un tatuaggio mentale, a gente già predisposta ad indossare l’identità del guerriero del Jihad, sopra il proprio nulla abissale. E’ questo che rende così difficile arginarli: che vi credete? I canali d’infiltrazione comuni possono essere intercettati dallo spionaggio: lo spontaneismo nemmeno per sogno. Non date retta ad Alfano, che vi parla di successi dell’intelligence: quello con qualunque forma di intelligence ha rapporti talmente sporadici da potersi definire assenti. L’assassino può provenire dagli immigrati di terza generazione, come dai barconi che, sagacemente, accogliamo a decine, senza il minimo controllo antiterrorismo: l’elemento determinante non cambia, ed è quello dell’assoluta spontaneità della trasformazione in automa della morte. Ma, vi direte, tutto questo cosa ha a che fare con la storiella del libretto e della naja: c’entra, miei cari, eccome se c’entra.
Le contromisure proposte alla popolazione italiana di fronte al fenomeno della guerra asimmetrica, perché di questo si tratta, sono, più o meno le stesse di quel libretto: state tranquilli, non abbiate paura e fidatevi delle forze dell’ordine. Come dire: sperate che non tocchi a voi, in definitiva. Certo, contro questo genere di minaccia non è che ci sia molto da fare: due coserelle, però, potrebbero servire a limitare i danni. La prima è l’educazione: un’educazione alla minaccia, molto simile ad un addestramento. Israele, che convive con questo problema da quasi settant’anni, addestra i propri cittadini ad affrontare le emergenze: perché non potremmo farlo anche noi? Non è vero che, in ogni scuola, si perde tempo a spiegare che, in caso di terremoto o di nube tossica si deve fare così e cosà? Siccome a Bergamo, per ragioni geologiche, un terremoto distruttivo non può accadere, varrebbe la pena di spiegare ai ragazzi come comportarsi nel caso, assai meno remoto, di un attacco terroristico: cose semplici, ma utili, come non raggrupparsi, non rimanere in piedi se uno urla “Allah u akbar!”, non stare in un angolo a farsi sparare addosso come pecore e così via. A volte, basta poco per ridurre l’impatto di un attacco suicida. Non è un caso che, quando uno di questi furboni ha tirato fuori l’AK47 su di un treno, dei militari in viaggio di piacere l’abbiano subito disarmato: questi non sono supersoldati, ma sfigati qualsiasi, senza esperienza militare, che si possono e si devono contrastare e non assecondare. Non dico che imparare quattro cosette a scuola possa risolvere la questione, però, credetemi, nel caso, aiuterebbe a limitare i danni.
L’altra cosa è il ripristino del servizio di leva: sorvolo sul fatto che darebbe ai nostri giovani un diverso senso dell’appartenenza e del dovere, limitandomi all’ambito pratico. Avere in giro per le città dei soldati, anche semplicemente di ronda o, addirittura, in libera uscita, servirebbe a controllare meglio il territorio: invece, oggi, i nostri soldati sono soprattutto all’estero, non si capisce bene a far cosa. Il presidio delle città avviene solo per punti critici e sottrae personale alle già scarse Forze dell’Ordine: è un tipo di tattica che non paga e che non guarda al futuro, ma solo al tamponamento (o, se preferite, all’apparenza del tamponamento) di situazioni emotive contingenti. L’istituzione di una leva, anche solo per un servizio di Guardia Nazionale, avrebbe ricadute a pioggia sul nostro assetto difensivo e finirebbe per costare meno delle nostre dissennate spedizioni in Afghanistan o in Libano. Altrimenti, non ci rimane che affidarci alla Madonna di Caravaggio o alle rassicurazioni di Alfano: insomma, una soluzione apotropaica.