Difficile arrivarci per caso. A Songavazzo, paese periferico della Val Seriana, ci vai solo se hai un buon motivo. Il ristorante di pesce Donnarumma è un locale che non immagini e che perciò ti sorprende. Non tanto per il pesce, ristoranti di mare in valle e montagna ormai non fanno più notizia. Né per gli interni di taglio nettamente moderno, quasi un corpo estraneo nel contesto rustico della valle.
La cucina, e il teorema del piatto perfetto di Donnarumma, sono i 50 cm di lunghezza dei suoi piatti. Trafficati come un fondale marino protetto. Pesci, molluschi e crostacei sguazzanti tra spaghetti o mezze maniche di Gragnano o tra semplici verdure, con il loro fitto seguito di bivalvi di ogni genere e specie (vongole, tartufi di mare, cozze, ostriche). Catalane trionfanti di crostacei (in estate declinate in versione dolce-salata, con contorno di frutti esotici e sottobosco), pesci al forno o a vapore oversize capaci di “stendere” il più motivato degli avventori. Insomma, una vera mitologia dell’abbondanza con piatti smisurati da Grande Abbuffata ferreriana e indiscussi precursori in Teofilo Folengo e Rabelais, per citare i più noti.
È un percorso, per molti aspetti, circolare quello di Libera Donnarumma, chef e titolare del locale insieme al marito Alessio Savoldelli, nata a Gragnano, in Campania, e ormai da 25 anni al Nord. Il ritorno alle origini, come avviene per molti chef, per Libera è un richiamo irresistibile, se non addirittura il vessillo della sua cucina. Delle origini c’è la pasta della Gragnano natia, ma soprattutto l’intensità del mare campano resa attraverso l’artificio (se così si può dire di una cucina “istintiva”) dell’iperbole. E dunque, lavorare per addizione, anzi moltiplicare pasta e pesci e quant’altro.
Ordini due capesante gratinate (6 euro l’una), pensando che la matematica non sia un’opinione, e ti arrivano sì due valve, ma moltiplicate per cinque (dieci noci, o forse più, di capasanta). Stessa storia per l’antipasto di calamari e calamaretti grigliati, teneri, succosi e succulenti (si mangiano tranquillamente in quattro). Se in altri locali la tecnica è di caricare il contorno per supportare un protagonista di scarsa stazza e dare consistenza a un piatto dove inesorabilmente è il bianco della porcellana a primeggiare, qui invece è il pesce-protagonista a prendersi tutta la scena, con gli elementi di contorno a fare da comparsa. Basta l’arrivo del primo piatto per mettere in subbuglio la tavolata, richiamare l’oste e il più gentilmente possibile chiedere di rivedere l’ordinazione, dimezzando le portate successive.
Punto di forza del locale, la scelta in favore dell’abbondanza non è certo dettata da calcoli utilitaristici, rispondendo probabilmente a dinamiche ataviche, scritte nella storia quasi deamicisiana della protagonista. Origini modeste, adolescenza in collegio, allontanamento precoce dalla famiglia per motivi economici e lavorativi. Scarsità di cibo e di affetti e, dunque, perché no, cibo come surrogato. «Non ne ho visto molto nella mia giovinezza – si sfoga Libera-, ora mi piace vederlo e prepararlo in abbondanza e che gli ospiti possano goderne fino alla sazietà. Abbiamo provato a ridurre le porzioni, ma le abbiamo ripristinate subito per l’insistenza dei nostri clienti».
La consuetudine sin da giovanissima con il lavoro ai fornelli consente a Libera di gestire la cucina senza alcun aiuto, riuscendo a preparare anche 30 e più coperti, e addirittura a far testare, molto democraticamente, la cottura della pasta al cliente. «Ogni cliente ha il suo punto di cottura, giusto che sia lui a decidere. Certo, qui pratichiamo una cucina espressa con piatti preparati al momento che richiedono fino a 20 minuti di preparazione. Una piccola attesa è inevitabile, ma è il prezzo della qualità».
Qualità che si riconferma nei dolci, alcuni dei quali home made, come la pastiera napoletana e il tortino caldo di cioccolato, altri in arrivo direttamente da Campania e Sicilia. Il prezzo per un pasto medio (praticamente una portata e mezzo) si aggira sui 30 euro, vini esclusi. Almeno quello, piccolo.